Chi era Jane Austen, autrice immensa come Shakespeare

Avvertenza preliminare. Jane Austen non è tanto e solo una autrice “per signorine”, oggi brand dell’immaginario pop, paradigma di tanta letteratura rosa e chick-lit, occasione per rivisitazioni cinematografiche e televisive, pretesto di manuali di comportamento etc., quanto un’autrice immensa, associata da Virginia Woolf a Shakespeare (entrambi “assenti” dal testo), amata – solo per citarne alcuni – da George Eliot, Mark Twain, Henry James, Katherine Mansfield, Chesterton , Capote, Nabokov, Tomasi di Lampedusa e fino a Jamaica Kincaid.

Tutto questo lo apprendo leggendo il corposo saggio introduttivo di Liliana Rampello (80 pagine) al primo Meridiano dedicato alla narrativa di Jane Austen (con i romanzi Northanger Abbey, Ragione e sentimento, Orgoglio e pregiudizio, poi “Altri scritti” (Juvenilia, Lady Susan), dove scopriamo che alcune sue cose giovanili, benché “minori” sfidano coraggiosamente il proprio tempo, la sua mentalità e le sue convenzioni (traduzioni di S. Basso, S. Censi, L. Ciotti Miller, L. Gaia e F. Pinchera). Liliana Rampello, nel suo scritto minuzioso e devoto, ci offre un ritratto completo della scrittrice, insistendo sulla sua inclassificabilità, sulla sua personalità estremanente porosa, capace di abbracciare sia – come spesso le venne accusato – “la povera zitella, di qualche talento, conformista e perbenista”, interamente chiusa nel proprio piccolo mondo antico, sia la scrittrice di “intelligenza abbagliante”.

Una “coscienza limpida”, una “mente androgina” (Woolf) che sorride delle follie del mondo, impegnata a descrivere società “con quella freddezza, pazienza, ponderatezza… che le consentono di diventare una grande artista”. Inoltre propone un percorso all’interno della sua opera narrativa scandito da topoi illuminanti quali ad es. la “passeggiata” “invenzione necessaria per far pensare con la propria testa la protagonista”. Forse avrei concesso meno agli studi, pur importanti, di Franco Moretti, che ci ha mostrato le relazioni spesso invisibili tra generi letterari ed evoluzione della società borghese. Ad esempio dove si nota che l’uso del discorso indiretto libero (una delle innovazioni austeniane) rivela una voce neutrale, tra voce dell’autore e voce del personaggio, che è poi quella “dell’individuo socializzato”. Giusto, ma ce ne importa così tanto dell’individuo socializzato? Proviamo andare oltre al contratto sociale e a una idea di letteratura come qualcosa che solo ci adatta al mondo circostante! Certo, la letteratura è servita anche a assicurare il consenso alla società borghese, imbrigliandone i conflitti, ma la letteratura è molto più di questa funzione. Contiene un nucleo sovversivo, non addomesticabile.

Il punto decisivo è che i romanzi di Jane Austen ci parlano direttamente, ci interrogano, criticano la nostra vita, arricchiscono la nostra immaginazione morale. Altro che consenso! Senza considerare l’equivoco tipicamente morettiano, qui appena sfiorato, per cui il romanzo come genere abbasserebbe la Storia al livello del quotidiano. Ne siamo sicuri? Ma il romanzo ottocentesco, da Stendhal a Tolstoj, dimostra proprio che la realtà autentica è il quotidiano, mentre la dimensione della Storia è perlopù irreale, distante, ingovernabile da parte degli individui. Nei romanzi di Austen non ci sono i grandi eventi storici della sua epoca – rivoluzione francese, Restaurazione, imminente rivoluzione industriale – per la ragione che lei si limita a mostrarne i riflessi sul modo di essere dei suoi personaggi.

Nella introduzione non si riprende lo spunto davvero fondamentale di Lionel Thrilling, citato un po’ di sfuggita nelle prime pagine, e cioè il fatto che la Austen sviluppi una vera critica della modernità (non riducibile ai conversation pieces di Mario Praz). In che senso? Nel senso che mette al centro l’umanità ordinaria di quel mondo. Trilling, certamente con un azzardo teorico, contrappone Austen, Wordsworth (e la tradizione rabbinica) a una certa idea di modernità, allo scopo di affermare una morale antieroica. Per definire la verità ultima dell’esistenza il critico ebreo americano indica un “sentimento dell’essere” (sentiment of Being): sentimento di esserci (biologicamente), prima di ogni determinazione sociale o culturale, insomma la vita che si giustifica in se stessa, qui ed ora, senza che debba essere riscattata da un eroismo, dallo stile, dal coraggio, dal genio, dalla lotta, etc. Il mondo non va rifatto, ed è fondamentalmente buono, come ci ricorda la Torah.

In Orgoglio e pregiudizio il ricco e piacente gentiluomo Darcy (Colin Firth in una versione televisiva per la BBC, il migliore di tutti) “sembra convinto che la campagna non valga niente”, eppure anche lì si recita la eterna commedia umana, e anzi le relazioni vi ritrovano una nuda verità.
Il genere stesso del romanzo, come insegna Jane Austen (ben inserita nella tradizione inglese, più Fielding che Richardson e forse non immemore di Hume) è la “scienza” di tutto ciò di cui non si può fare scienza, dell’incoerente, contraddittorio vissuto emotivo delle persone, composto di dettagli spesso invisibili e di sfumature. Quando Darcy chiede la mano a Elizabeth – ventenne intelligentissima, ironica, impertinente, solare (“non era fatta per il malcontento”), di estrazione modesta, e insiste un po’ troppo sulle loro differenze sociali, lei nota “che si esprimeva bene”, tuttavia “parlò con eloquenza di orgoglio non meno che di tenerezza”.

Darcy è infatti ancora rinserrato nel suo aristocratico egoismo, non ha trasformato l’orgoglio (ci viene poi segnalata una differenza terminologica fondamentale: “L’orgoglio ha a che fare con l’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità con l’opinione che che vorremmo gli altri avessero di noi”). Il carattere della padrona di casa, Lady Bennett (la madre delle cinque ragazze), è impietosamente descritto – sciocca, pettegola: “una donna d’intelligenza modesta, scarsa istruzione e temperamento instabile” – però il giudizio severo non impedisce una pietas verso il personaggio, che possiede una propria dignità creaturale e che non ha meno diritto di esistere rispetto a tutti gli altri.

Rampello sottolinea giustamente “l’ironia feroce”, l’intenzione parodica che attraverso i romanzi austeniani, specie quelli giovanili (romanzi di anti-formazione), sorretti da una lingua volutamente esagerata e melodrammatica. Romanzi che non offrono soluzioni, che, per riprendere lo schema morettiano, non ci adattano per nulla ai ruoli sociali. La ribelle, irruenta Marianne di Ragione e sentimento sceglie il saggio colonnello Brandon, pur non essendone all’inizio innamorata, e dopo aver capito la falsità della propria “passione irresistibile” per il fatuo Willoughby. Pensate a una quieta, conformista integrazione? Rampello commenta: “Non sarà la sola a capire che la felicità si raggiunge quando il dovere guida liberamente il desiderio”. Solo un romanzo poteva mostrarci un dovere che, paradossalmente, ispira il desiderio, e dunque l’intreccio mai interamente risolto tra ragione e sentimento.