Chi guida il cambiamento? Il caso Instagram e il nuovo protagonismo politico delle Big Tech

Di recente, mentre guardavo la tv, mi è capitato di incrociare uno spot di Instagram che parlava di autorizzazione genitoriale per gli adolescenti nei digital store. Non era il classico messaggio commerciale: sembrava rivolto non ai consumatori, ma ai decisori politici. Da lì è nata la curiosità di approfondire, e ho scoperto che si tratta di una vera e propria campagna pan-europea con cui la piattaforma si rivolge alla Commissione Europea. L’obiettivo? Introdurre l’obbligo per i minori di 16 anni di ottenere l’approvazione dei genitori prima di scaricare app dagli store digitali.

Apparentemente, è una mossa in linea con l’attenzione sempre più marcata delle piattaforme nei confronti della sicurezza online dei più giovani. Ma dietro questa iniziativa si intravede qualcosa di più profondo, e forse più rilevante: un mutamento di ruolo delle grandi imprese tecnologiche, sempre più protagoniste nella sfera pubblica, sempre meno semplici erogatrici di servizi.
Il punto interessante non è tanto il contenuto della proposta – che, tra l’altro, raccoglie un ampio consenso: secondo un sondaggio commissionato da Meta, il 75% dei genitori in Europa (e l’82% in Italia) sarebbe favorevole a questa forma di tutela – quanto il soggetto che la promuove. È un’azienda privata, con un interesse economico diretto nel rapporto tra adolescenti e digitale, che si rivolge alle istituzioni democratiche europee chiedendo di intervenire su un tema sensibile, con una campagna comunicativa pubblica. Tecnicamente, è a tutti gli effetti una campagna di advocacy, uno strumento ben noto nel mondo del public affairs e del lobbying, attraverso il quale un attore privato cerca legittimamente di orientare il dibattito pubblico e normativo.

In questa dinamica si riflette un fenomeno sempre più evidente: le grandi piattaforme digitali stanno progressivamente occupando uno spazio lasciato scoperto dalla politica. La lentezza, la frammentazione e spesso l’inadeguatezza delle istituzioni nel comprendere e regolare i fenomeni legati al digitale producono un vuoto che le corporate non esitano a colmare. Lo fanno presentandosi come portatrici di soluzioni, come interpreti di bisogni sociali, come interlocutori capaci di mediare tra tecnologia, diritti e quotidianità. In alcuni casi, come questo, addirittura come garanti di protezione e responsabilità.
Instagram, per esempio, ha già introdotto una serie di strumenti di parental control, profili teenager, algoritmi per bloccare interazioni indesiderate e sistemi di verifica dell’età tramite intelligenza artificiale. Rivendica di essere già avanti rispetto alla normativa, e chiede alla politica di adeguarsi a uno standard che – implicitamente – l’azienda ritiene già efficace. È una narrazione che ribalta lo schema tradizionale: non più le istituzioni che impongono vincoli alle imprese, ma le imprese che offrono ai decisori pubblici una cornice normativa da adottare.

Questa inversione di ruolo merita però una riflessione attenta. Il fatto che un soggetto economico privato si assuma un’iniziativa politica su un tema come la tutela dei minori non è di per sé un’anomalia da stigmatizzare, anzi: può rappresentare una forma di responsabilità nuova, un tentativo di partecipare attivamente alla costruzione di regole più adatte al presente. Ma proprio per questo la politica è chiamata a interrogarsi con serietà sul proprio ruolo: cosa significa oggi governare l’innovazione, se sono le imprese a intercettare e tradurre i bisogni della società? Che tipo di rapporto vogliamo costruire tra istituzioni democratiche e attori privati, quando questi ultimi sono spesso più rapidi, più strutturati e – almeno in apparenza – più vicini ai cittadini? Il protagonismo delle Big Tech, in questo senso, non è tanto un problema quanto un segnale: un campanello d’allarme per una politica che rischia di perdere il primato nella definizione dell’interesse collettivo.

È in questo scenario che bisogna interrogarsi non tanto su cosa fanno le aziende tecnologiche, ma su cosa non fa più la politica. La battaglia per la protezione dei minori online non dovrebbe essere il terreno della competizione tra corporate e governi, ma un ambito di responsabilità pubblica, guidato da chi ha ricevuto mandato democratico per decidere. Se le imprese si candidano a essere interpreti dello spirito del tempo, forse è perché chi dovrebbe rappresentarlo ha smesso da tempo di farlo.