Chiara Frigo e la vocazione antiretorica del movimento

Tornano di moda, ad ogni latitudine, mentre i contorni del pensiero paiono fradici d’una tinta unica bellicista che spaventa ed inquieta, i colori netti delle decisioni irrevocabili. S’avverte il bisogno di un diverso respiro della coscienza che vinca l’affanno ad intrupparsi tipico del nostro asfittico dibattito pubblico. La ricerca, l’applicazione, l’invenzione, il tentativo di rischiare immaginari inconsueti  sono forse oggi  minuscoli ma testardi antidoti al deserto delle opinioni che indossano l’elmetto. Ecco perché ci incuriosisce Himalaya_drumming lavoro acuto di scena il prossimo 13 marzo al Teatro del Lido di Ostia. Ispirato alla “Montagna” come archetipo universale del sacro, la performance  di Chiara Frigo riflette su come una coreografia si può trasformare in un’esperienza ritmica collettiva.

Immersi in un’atmosfera in cui dialogano movimento, luce e suono,  vi si percepisce il richiamo di un “altrove” che talvolta è possibile raggiungere. Nato per un’unica versione site-specific, dopo l’incontro con il batterista Bruce Turri e il creatore luci Moritz Zavan Stoeckle, il progetto si è evoluto in una versione per spazi teatrali. Chi scrive ha già seguito  l’itinerario dell’opera della coreografa veneta sin dal suo sorprendente Suite-hope. Spettacolo per due interpreti e un popolo di carta, finalista del Premio Prospettiva Danza Teatro 2011, selezionato tra i finalisti 2012 di Aerowaves, network internazionale di danza. Due ottime performer, tra cui la stessa Frigo,  indagavano la speranza  come fragile vertigine senza stasi, l’intreccio di timori e tremori giustificato dalla volontà che esiste senza il riparo e la certezza dei propri raggiungimenti.  Reciso e vero era ogni passo nel disinnescare le favole edificanti e pubblicitarie d’un’epoca in mano ai falsari  già prima che l’espressione fake news  nascesse  limitandosi a confinare in un recinto la deprecabile menzogna ufficiale perché potesse fiorire il vastissimo giardino di  quella consentita.

L’implacabile e struggente  necessità del movimento procedeva tra crolli e interruzioni, non s’estingueva, si rigenerava continuando  a mostrare quanta grazia inevitabile sia contenuta nel cadere e in fondo,  nel sopravvivere. La meccanica degli ordini che chiedono funzioni da soddisfare e perfezioni da esaudire, nell’unica incursione della voce su una scena di musica e corpi, disponeva e categorizzava i ruoli di sagome umane, ritagliate dal cartone colorato, una massa mai immobile, destinata ad essere riallineata, ricomposta, perduta, in una splendida metafora della separazione e della perdita che coinvolgeva le stesse danzatrici. Esse si sfidavano, s’abbandonavano, piroettavano sulle porte girevoli della competizione e della quiete, abbozzavano le lancette di un orologio, mimando i tic, le rabbie, le fisionomie riconoscibili di una disperazione organizzata, sequenziale. Il tempo lineare e acefalo che rincorre e divora altro tempo, si scontrava così, nell’agone invisibile del quotidiano, tra le ombre di piccole umanità di carta, con il bisogno di una durata autentica, densa, un luogo in cui stare ed avvertirsi senza infingimenti, una fuga dalle facili fughe dal  presente. La ricerca della performer veronese guarda e osserva, definisce e graffia, senza mai la tentazione d’ammirare e d’ammirarsi.

Una sorta di vocazione antiretorica del movimento che si svelava già oltre un decennio fa e che oggi rimane la cifra di una creatività vitale e a tratti preveggente,  mirante a una vetta non ancora afferrata da chiunque intenda colonizzarla, si manifestava, nello spettacolo appena ricordato, attraverso una sequenza che sembra ancora, tremendamente attuale: le danzatrici s’avvicinavano al bordo del palco sfilandosi una serie di t-shirt indossate una sopra l’altra. Ciascuna  maglietta recava la stampa di personaggi storici trasformati, dalla necessità collettiva di credere, in rassicuranti icone pop: da Lenin a Che Guevara, da Marylin Monroe a Martin Luther King.  Radure pianeggianti, piatte. Nostalgie  su cui intende svettare l’inquietudine che non si accontenta  di un simbolo