Cinque fotografe, una storia fatta di sguardi e di corpi

Com’era già accaduto con Le disobbedienti, Elisabetta Rasy nell’ultimo suo lavoro, Le indiscrete (Mondadori, pp. 235, euro 20), muovendosi tra saggio storico e racconto dell’anima dispiega tutt’intera, in una lingua di purezza accattivante, la triplice capacità di restituirci: il XX secolo; lo sguardo potente di cinque donne; e una forma d’arte, la fotografia, fattasi oggi pervasiva sino al parossismo delle nostre quotidianità social. Pur aderendo a una presentazione cronologica, l’andamento della scrittura si staglia infine lontano dalla storia, nutrendosi, piuttosto, di una riflessione instancabilmente energica sulla vita interiore dell’artista, altalena ineludibile tra vigore estremo e fragilità accidentate.

Accade dunque che le esperienze artistiche di Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman vengano ricostruite col rigore dell’occhio storico (ogni profilo esistenziale apre il sipario su puntuali scenografie di ambienti politici e culturali, dal Messico degli anni Venti allo scorcio romano della fine degli anni Settanta). Tuttavia, è la scia luminosa – intima, radicalmente interiore, accentuatamente etica – che queste cinque intensissime esperienze di vita e d’arte hanno lasciato, a costituire la trama intorno a una domanda centrale che interpella ciascun lettore: dove e verso chi rivendico la libertà di decidere di rivolgere (o di non rivolgere) il mio sguardo?

Le fotografe che la Rasy ci fa osservare, tramutate esse stesse in modelli per l’occhio del lettore invitato a sua volta a farsi amorevole sguardo fotografico, hanno esercitato la libertà dello sguardo come porta, fosse pure minima e quasi invisibile, di accesso alla dignità, di quella loro e di quella del mondo compreso dallo scatto della macchina. Attraversiamo così, come in un viale delle immagini frastagliato, la presa di coscienza dello sguardo fotografico femminile del 900, a partire da Tina Modotti, emigrante friulana di una bellezza calda e classica: «C’è sempre un elemento contemplativo nelle sue fotografie: è una devota della religione della vita. Non ha mai pregato i santi e la Madonna, ma ogni suo scatto assomiglia a una preghiera». A quest’attitudine contemplativa è riconducibile anche la scelta di sguardo di un’altra discendente di emigrazioni: la famiglia Lange viene da Stoccarda e approda nel New Jersey, dove Dorothea nasce nel 1895. A sette anni si ammala di poliomielite, restando zoppa per tutta la vita.

Quando, fotografa ammirata, terrà delle lezioni sul tema-domanda “Dove vivo”?, provocata da uno studente lei stessa farà l’esercitazione e fotograferà il suo piede storpio. Ed è forse questa remota esperienza di dolore infantile che la rende consapevole del fatto «che ogni creatura porta incisa nel corpo la propria storia». La sua fotografia non è solo documentazione, allora: anche quando diventa socialmente impegnata «vuole cambiare lo sguardo sul mondo». Uno sguardo di attenzione rispettosa, che richiama la preghiera laica della Modotti: quando fotografa «tocca quei corpi con occhi amorosi». E ancora nelle pagine dedicate alla musa, modella e artista Lee Miller, intrepida ricercatrice della verità nascosta nelle visioni, la Rasy ci guida a cogliere l’essenziale: la Miller decide di attraversare la Germania nazista sconfitta al seguito delle truppe americane, e «in quella fredda primavera di guerra, realtà e visioni coincidono». Per questo, quando invia a Vogue le foto dal lager di Dachau, le accompagna col biglietto “Believe it”.

Un’altra americana, appartenente stavolta alla ricca borghesia ebrea newyorkese, annoda alla fede nella visione scelte artistiche faticosamente maturate: è Diane Arbus, la cui ispirazione trae forza e sostanza da ciò che «abita nelle profondità misteriose della psiche», una materia mostruosa più viva «delle fugaci figure della realtà». Arriverà così a raccontare con la fotografia le cose che nessuno «vedrebbe se io non le fotografassi»: i freaks, le creature marginali, «bizzarre e inconsuete», non per denunciare, ma in quanto, più profondamente e più semplicemente, «fonte di stupore ma anche di simpatia e di amicizia». Quando la sapienza narrativa della Rasy ci restituisce la sua fine tragica, restiamo stupiti e commossi, ma forse consci della sua inevitabilità. Fine comune anche all’ultima delle cinque “eroine”: Francesca Woodman, con l’ossessiva, coraggiosa, liberatoria riproduzione della sua nudità.

Autoritratti che inducono oggi come non mai un fecondissimo disorientamento e che allora inquietarono i suoi giovani amici. Alla domanda perché fotografasse se stessa, la Woodman replica ironicamente: «È una questione di convenienza, io sono sempre a disposizione». Quella disposizione del corpo, esposto e consegnato al mistero dell’esserci e della sparizione, che è il nostro ingombro, la nostra miseria e la nostra gloria: protagonista dello sguardo amorevole della Rasy, la sesta fotografa, della parola, associata ai destini di libertà e coraggio delle cinque indiscrete generosamente ritrovate a beneficio di tutti noi.