Colaprico, papà di “Tangentopoli”: “Inchiesta poco nitida. A Sala rimprovero mancanza di cuore, la sua educazione passa per freddezza”

Foto LaPresse - Vince Paolo Gerace 20/06 /2018 - Milano (MI) Cronaca Premilioni a Palazzo Marino Nella foto Piero Colaprico e Beppe Sala Sindaco di Milano prima della premiazione del Premiolino

Oggi dirige il Teatro Gerolamo, ma mantiene uno sguardo attento sulla sua Milano. Piero Colaprico, giornalista di giudiziaria di lungo corso, legge con noi l’inchiesta che sta scuotendo la città in questi giorni. Cronista di Repubblica dai tempi di Mani Pulite – fu lui a coniare il termine “Tangentopoli” – ha seguito per decenni le vicende giudiziarie milanesi, prima di lasciare il giornale nel 2021. Con lui proviamo a capire cosa distingue le indagini di oggi da quelle di trent’anni fa, quali meccanismi sembrano ripetersi e quali invece sono cambiati nel rapporto tra politica, affari e magistratura. E sullo sfondo, com’è cambiata la stessa metropoli.

È tornato il clima del ’92?
«Per carità, siamo distanzi anni luce. Allora si cominciò sulle mezzette pagate persino sui pannoloni degli anziani alla Baggina e su altri appalti che indignavano. Correvano valigie di soldi. C’erano conti esteri pazzeschi. E un imputato con i lingotti d’oro nascosti in una poltrona. Adesso, a parte che è difficile comprendere alcuni elementi costituti del reato che sarebbe in corso, parliamo di mattoni e piani regolatori. Caso mai, questa vicenda potrebbe per sommi capi ricordare lo scandalo del cosiddetto piano casa, con Salvatore Ligresti che negli anni della Milano da bere costruiva ovunque, ma siamo lontani anche da quel contesto».

Ma anche questa volta la magistratura entra a gamba tesa nella politica, o no? Allora si costruì un ruolo moralizzatore.
«Il tema è delicato. Cioè, capiamoci. I magistrati non “scrivono la storia”, come pure s’è sentito affermare da qualcuno che ha scambiato la sua toga per lo scranno in parlamento o per il pulpito di una cattedrale. Però, più volte, il pm, ma anche qualche giudice, si costruisce – è il verbo giusto – una veste, o una corazza, da moralizzatore. Ora, dietro le quinte, mi domando, ma come parlano tra loro i magistrati? O i giornalisti, i chirurghi, i carabinieri? Bisogna stare attenti a non confondere le frasi degli indagati con i fatti commessi. E l’arroganza personale con l’illecito. Se non lo si fa, e si va avanti senza dubbi, ecco che arriva una sorta di auto-proclamazione della magistratura tipo polizia morale iraniana».

Il sindaco Sala è stato “avvisato” dai giornali. Un vecchio metodo…
«Da dinosauro delle cronache non mi scandalizza, capita a tanti, non è bello, ma ci sta. Capiterà ancora e i minimi suggerimenti avanzati dai giornalisti per una migliore informazione giudiziaria, sempre in dibattiti pubblici, non vengono filati».

La sala stampa del palazzo di giustizia, allora divenne il centro di smistamento delle veline nella procura. Naturale: se si ha in mano una notizia, la si pubblica, ma il sistema diventò perverso. Funziona ancora così?
«Contesto radicalmente questa versione, è falsa e viene portata avanti ancora oggi da colleghi bisognosi di servire il potere o di riposizionarsi. Alcuni hanno un’ambizione sproporzionata rispetto al talento. Io c’ero, avevo la laurea in legge – la mia tesi era stata in diritto costituzionale sulla commissione inquirente – e da anni ero stato nominato da Eugenio Scalfari inviato speciale. Non stavo a passare le veline. E mi faccia dire che sono stato il primo a sottolineare che Antonio Di Pietro, leader dell’inchiesta, aveva creato “un commissariato dentro la procura”. Qualcuno s’è scandalizzato? Zero».

Ma le notizie allora da dove arrivano?
“Non ho mai parlato in vita mia delle fonti, ma credetemi se dico due cose. Quando l’inchiesta è forte – e quella su tangentopoli lo era – la procura si tiene strette le carte. Due, a parlare con i giornalisti dei quali si fidano sono i soggetti più disparati, soprattutto quelli che gli indagati non possono nemmeno immaginare. Ai tempi – e cioè 33 anni fa – non c’erano i siti, si cercavano e si leggevano migliaia di fotocopie e i cronisti più bravi – ce n’erano ovunque, anche nelle tv – stavano attenti a scrivere il vero, non quello che diceva la procura. I verbali, a centinaia, “io ho dato, io ho preso”, sono fatti e non chiacchiere da revisionisti. Evito di citare nomi e cognomi, dopo decenni, ma i ladroni non mancavano tra i politici, anche di primo piano».

Oggi abbiamo il “tribunale popolare dei social”… Cos’è cambiato?
«L’ignoranza dilaga, la rabbia pure. Ognuno crede di parlare e di esercitare un diritto democratico. Lo è in parte, ma uno “non” vale uno. Cioè, se non hai studiato, non hai letto un libro, non conosci una carta giudiziaria, che cosa ti dice la testa per trasformarti in un inquisitore? O in una carogna che si accanisce contro chi si trova in difficoltà? Molti osservatori – ora come durante Tangentopoli – se ne accorgono però solo quando nel tritacarne mediatico vengono infilati politici, imprenditori e colletti bianchi. Ma è nei casi di nera che c’è l’abisso, il vero orrore disumano del troglodita che si permette di criticare padri e madri di vittime, di ipotizzare piste alternative e via sproloquiando».

Torniamo all’inchiesta, nella sua sostanza: per ora le carte sanno molto di teorema…
«Le ho quasi lette tutte, esistono elementi di opacità e di conflitto d’interesse tra gli architetti, ma si procede per corruzione. Sinora non l’ho vista nitida e chiara com’era in Tangentopoli. Anzi, ho visto non pochi errori dei detective, compresa la definizione di cortile in piazza Aspromonte, sulla quale il tribunale del riesame ha smentito la procura. Che però non mi pare ne abbia tenuto conto».

Perché ancora Milano?
«Perché esiste una magistratura forte, da sempre, e perché non esiste in Italia una città cambiata così velocemente negli ultimi decenni. Inoltre, essendo una vera città del fare, qui si fa. Parli, vedi, provvedi, agisci. La velocità di reazione qui è doppia rispetto al resto d’Italia. Tra veri sconosciuti, mossi dalla stessa idea di business, qui basta un pranzo per trovare un accordo, per un’assunzione, per una scelta di campo. In certi ambienti, ci si conosce tutti, ma questo non significa mafia, P2, amichettismo o lobby come in altre città. Significa solo accorciare – a un livello medio – i tempi e le distanze. Conoscere la città e la sua filosofia sarebbe importante, sia se si lavora a Milano, sia a Napoli, sia a Palermo. Nel senso che la legge è uguale per tutti, ma le parole sono diverse nell’interpretazione a seconda del luogo dove suonano».

Ci sono due narrazioni: quella della Milano insofferente alle regole e affarista in modo spavaldo, e quella della Milano che cerca di stare al passo con le capitali europee, malgrado la zavorra di ideologismi e provincialismi. Forzate entrambe?
«Più che forzate, sono parziali. Ma c’è una dose di realtà in queste descrizioni. Credo che abbiamo architetti spavaldi e costruttori affaristi, ma se questo fosse reato allora è meglio scappare su una spiaggia esotica, potendoselo permettere».

Insomma, da cronista che ha raccontato la città con le sue criticità: Milano oggi ha una sua direzione, una sua idea?
«A mio veramente modesto parere, sino al primo mandato del sindaco Giuseppe Sala una visione – dal traffico all’ecologia, dallo sky-line alla posizione del centrosinistra sullo scacchiere regionale e nazionale – per me c’era ed era chiara. Dopo la sua vittoria, lo è stata meno. Non si pretende che Sala getti il cuore oltre l’ostacolo, ma un po’ di cuore in più avrebbe dovuto metterlo su alcuni temi. Da come l’ho visto agire, sin dai tempi di Expo, non mi pare uno che abbia da nascondere qualcosa, quindi dallo stadio di san Siro all’urbanistica per me avrebbe dovuto “urlare” la sua prospettiva. Ha scelto il profilo basso, ma – se Milano è quella città anche spavalda – il profilo basso non mi pare che abbia funzionato. La sua educazione passa per freddezza. Quando dice che ha le “mani pulite” gli credo, ma non ha avuto la voce squillante e il passo sicuro. E non ha calcolato che i suoi nemici politici – a cominciare da Ignazio La Russa per finire ad alcuni pentastellati – grazie all’alzare la voce e al marciare con gli scarponi chiodati senza il minimo dubbio hanno creato la loro immagine. Io non farò mai politica, ma come diceva un vecchio socialista la politica è anche “sangue e merda”, e se fai lo schizzinoso devi pensare che possono arrivare altri più feroci e voraci e farti fuori, in un modo o nell’altro. In questo scenario, resto allibito perché pochissimi, in pubblico, osano difendere Sala. La borghesia milanese è sempre a spasso, solo i comitati di quartiere, quelli del perenne no, non mollano mai. La Milano degli anni Sessanta, del boom, in cui si remava tutti insieme, è “bloccata”, come i cantieri che s’impolverano dietro l’avviso di “sequestro”. L’anima di questa Milano sotto scacco giudiziario mi sembra come una ruspa che non gira più. Vedremo a settembre, se cambia qualcosa».