Per anni il sospetto sollevato da un’indagine della Dda lo aveva accompagnato in ogni sua scelta privata e politica. Quel sospetto era diventato una sorta di etichetta politica, difficile da togliersi di dosso, e si era tramutato in un capo di imputazione messo nero su bianco negli atti di un procedimento penale. Ieri il processo si è concluso con una sentenza che ribalta l’impostazione accusatoria e fa a pezzi quell’etichetta. Massimo Grimaldi, consigliere regionale in quota Forza Italia, è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste».
Il verdetto, pronunciato dal giudice dell’udienza preliminare Nicoletta Campanaro al termine del rito abbreviato demolisce l’impostazione accusatoria, condividendo la tesi degli avvocati del collegio di difesa, i penalisti Claudio Botti e Carlo De Stavola. I dettagli della motivazione saranno noti con il deposito della sentenza. Per il momento parla il dispositivo: assoluzione. «È finalmente finito un incubo durato anni che ha causato tanta sofferenza a me e alla mia famiglia . Ringrazio i miei avvocati che hanno sempre creduto in me e i giudici che si sono letti le carte. Ho sempre rispettato anche il lavoro della Procura, chi ha condotto le indagini ha fatto il proprio dovere. Ora continuerò con passione la mia attività di consigliere e di esponente di partito. Oggi è il mio vero 25 aprile», è stato il commento di Grimaldi alla notizia della sentenza di assoluzione. Casertano, di Sessa Aurunca, Grimaldi siede in consiglio regionale da oltre quindici anni, prima con il Nuovo Psi e poi con Forza Italia.
Nel 2019 i pm della Direzione distrettuale antimafia ne avevano chiesto l’arresto, misura cautelare respinta dal gip per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Grimaldi era accusato di aver ottenuto sostegno elettorale da uomini legati alla camorra del clan dei Casalesi e di conseguenza di rappresentare non la cittadinanza ma gli interessi dei clan. Di qui l’accusa di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo camorristico. Accusa per la quale la Dda aveva chiesto la condanna del consigliere regionale a otto anni di reclusione. Tutto nasceva da un’inchiesta del 2017 che, per la seconda volta (un primo filone nel 2015 si era concluso con un’archiviazione), ipotizzava trame tra camorristi e politici. Venuto a conoscenza del fatto di essere stato iscritto nel registro degli indagati, Massimo Grimaldi si presentò spontaneamente alla Procura partenopea per essere interrogato e provare a chiarire la sua posizione di fronte alle dichiarazioni di ex affiliati al clan dei Casalesi i quali, da collaboratori di giustizia, avevano raccontato del sostegno elettorale fornito al consigliere dal clan in occasione delle elezioni regionali del 2005, 2010 e 2015, nelle quali Grimaldi era sempre stato eletto.
Prima ancora che questi sospetti si tramutassero in qualcosa di più concreto sul piano giudiziario, la gogna mediatica e politica partì inesorabile. Quello di Grimaldi divenne un caso che leader politici di altri partiti citarono per sostenere la richiesta di una revisione della legge sugli scioglimenti in modo da far includere anche i consigli regionali o per sostenere l’idea di un “patto liste pulite”. Insomma tutti a puntare il dito prima ancora che vi fosse il processo. Poi il processo c’è stato, e veniamo a questi giorni. Per le elezioni degli anni 2005 e 2015 i pm avevano chiesto l’assoluzione del consigliere regionale, per le elezioni del 2010 invece la condanna. Nel confronto poi con la tesi difensiva sono emerse le contraddizioni dei pentiti: per esempio, in alcuni Comuni dove i collaboratori avevano parlato di sostegno del clan Grimaldi non prese neanche una preferenza. Di qui l’inattendibilità della ricostruzione accusatoria dei collaboratori e il crollo delle accuse. Quindi la sentenza di ieri: «Il fatto non sussiste».
