A partire dal 21 ottobre è tornato a Modena Periferico Festival. L’appuntamento organizzato dal Collettivo Amigdala è giunto alla sua quattordicesima edizione. La manifestazione internazionale che porta l’arte nello spazio urbano ci accompagnerà per tre fine settimana fino al 6 novembre. Tra gli ospiti che hanno animato gli scorsi gironi e che animeranno questo ultimo week end ci sono i compositori olandesi Rob Strijbos e Jeroen Van Rijswijk, il sound designer italo-ecuadoriano Ismael “Condoii” Condoy, Claudia Losi, Virgilio Sieni, la compagnia Archivio Zeta, Francesca Morello e molti altri.
Tra loro anche il collettivo artistico Corps Citoyen, basato tra Tunisi e Milano, che a Modena ha portato Corpo politico, un workshop a partire dal loro progetto performativo Gli Altri. Il lavoro che cerca di mettere in discussione il potere narrativo della rappresentazione di sé e dell’altro. Un laboratorio aperto dove, attraverso alcuni dispositivi della performance viene valorizzata la natura politica di ogni corpo e il suo potere attraverso la rappresentazione per eccellenza: la finzione scenica, che rafforza le narrazioni ma allo stesso tempo le sovverte attraverso l’inserimento di un altro corpo, quello del pubblico.
L’obiettivo di Corps Citoyen è quello di rafforzare i valori della cittadinanza attraverso la pratica artistica, la formazione, la ricerca e la partecipazione attiva della società civile al fine di promuovere un cambiamento politico e sociale. Ci siamo fatti raccontare tutto questo e molto altro da Anna Luna Serlenga, la direttrice artistica del collettivo.
Il Periferico Festival, a cui avete partecipato negli scorsi giorni, è segnato da incisività e internazionalità, uno spunto per una riflessione: la sovrapposizione identitaria che più spesso sfugge è quella che si snoda tra l’appartenenza a un gruppo minoritario e la sfera pubblica, fatta di una socialità politica che sembra sempre più sfuggevole. Nella vostra concezione artistica come si coniuga l’intersezione ultima tra la quotidianità e l’essere minoranza?
Nella nostra pratica artistica e politica l’obiettivo è proprio quello di ridefinire il confine tra narrazioni maggiori e quelle che vengono definite minori. In questa lotta risiede un lavoro che sta tra il linguaggio e la pratica artistica e curatoriale: nella quotidinità del nostro lavoro curatoriale con il centro d’arte partecipata decoloniale Milano Mediterranea, ad esempio, sosteniamo attivamente l’uso del plurilinguismo che si inscrive nella sfera pubblica attraverso manifesti e comunicazione social e sosteniamo attivamente artist3 delle diaspore in residenze diffuse sul territorio, in un quartiere spesso raccontato attraverso la lente dello stigma come è il Giambellino. Attraverso la costituzione di un Comitato di Quartiere, misto per età, provenienza e genere, scegliamo le due proposte artistiche da sostenere e le abbiniamo a spazi non convenzionali come un mercato, un fioraio o uno scisma bar. In questo modo, creiamo un clash nel quotidiano tra spazi, comunità, lingue e linguaggi che ci sembra possa contribuire alla costruzione di narrazioni nuove e relazioni trasformative (www.milanomediterranea.art)
Il vostro strumento artistico si caratterizza per le riflessioni di natura sociale e rappresentativa sull’identità nella sua dimensione politica. Vi è però un aspetto che non viene mai sufficientemente indagato, che è la politicizzazione forzata dell’identità, soprattutto se altra rispetto a quella egemone: da cosa nasce l’urgenza di includere questo aspetto nella vostra riflessione?
Questo lavoro parte da un dato biografico: da quando siamo rientrati in Italia, a Rabii Brahim, attore e co-fondatore del collettivo Corps Citoyen e co-direttore artistico di Milano Mediterranea, sono arrivate molteplici proposte di scenari, selftapes, drammaturgie di fiction o film, tutte caratterizzate da una fascia di ruoli riconducibili ad una stigmatizzante rappresentazione dell’Altro: spacciatori, padri mussulmani integralisti, terroristi, assassini, ladri sono solo alcuni dei ruoli proposti, scritti con italiano sgrammaticato. In questo senso, direi che la “politicizzazione forzata dell’identità” è un’imposizione che arriva dalla società, a cui abbiamo deciso di rispondere controbattendo, con la lente dell’ironia, andando a decostruire il meccanismo stesso di produzione della rappresentazione dell’identità: il teatro.
La vostra performance Gli Altri, che seppur segnata dalla fiction si caratterizza per l’elemento biografico degli autori, porta in scena un’alterità, quella italo-tunisina, che seppur inconosciuta, è incredibilmente comune. Indossare i panni impregnati di una paura che non è la propria, la xenofobia in questo caso, deve essere complicatissimo. Come ci si immedesima nell’intolleranza altrui?
Come detto sopra, ci siamo basati su materiale documentario realmente arrivato e proposto a Rabii, che abbiamo deciso di ampliare chiedendo a colleghi colleghe, performer e attrici/attori afrodiscendenti residenti in Europa, di partecipare ad una finta call per selftapes, che abbiamo pubblicato sul nostro canale IG e che poi abbiamo scelto di inserire nella drammaturgia finale dello spettacolo, per la loro forza e coerenza. In questo senso, la raccolta di materiale ha suggerito, per converso, il portato xenofobo che si articola intorno a questa questione in diversi Paesi europei.
La vostra performance fatta di identità sospese è emblematica delle strategie di mutua conoscenza che il progetto attua per scardinare i canoni della pratica artistica. Questo deve essere un lavoro strenuo, soprattutto in un contesto plurale come quello performativo. Qual è il ruolo dei processi di decolonizzazione nel ribaltamento dei paradigmi contemporanei?
Noi crediamo che il processo di decolonizzazione inizi dal questionare chi ha diritto di parola nello spazio pubblico:“Can the subaltern speak?”si chiedeva Gaiatri Spivak in un celebre intervento del 1988 su marxismo e interpretazione della cultura. Definire chi ha il diritto di parlare nella sfera pubblica è oggi più che mai un tema centrale nella ridefinizione dei ruoli di potere che caratterizzano il rapporto con i soggetti che vengono considerati minori. La narrazione occidentale ha una precisa agency di potere, che definisce l’Altro a partire dalle proprie categorie: per questa ragione, definire chi parla e lo spazio autoriale che occupa sono temi centrali di una pratica performativa che si vuole contemporanea e politica .
