In questo ultimo periodo Milano sembra vivere una schizofrenia morale e politica che si manifesta in modo plastico nelle sue vie, nelle sue piazze e nelle sue narrazioni. Ne abbiamo avuto una prova provata durante la manifestazione a sostegno del Leoncavallo dove, tra i tanti striscioni sventolati, ha lasciato il segno – per la sua paradossale sfrontatezza – uno in cui era scritto: “Giù le mani dalla città”. Uno slogan, ripreso dal celebre film di Francesco Rosi, che denunciava la speculazione edilizia, ma il cui significato veniva, in questo contesto, ribaltato quasi a sovvertire la logica della legalità.
Il Leoncavallo, occupato illegalmente per oltre 25 anni, ha fatto dell’illegalità un modello, un modus vivendi, che è stato tramandato da una generazione a un’altra. Con il coinvolgimento di una parte della città, dell’opinione pubblica nazionale e dello stesso Comune di Milano, che sembra strizzare l’occhio ai responsabili dell’abuso, preparando un bando che molti ritengono cucito su misura per chi ha fatto dell’illegalità la propria bandiera. E così, mentre due dei tre cerchi della struttura dell’inchiesta della Procura di Milano (quello delle irregolarità urbanistico-edilizie e quello delle accuse di comportamenti corruttivi per alcuni protagonisti del real estate meneghino) si stanno indebolendo di fronte all’evidenza dei fatti, il terzo cerchio (quello della critica politica e “moralistica” al Modello Milano) si estende in modo irrefrenabile. E al riguardo non poteva mancare l’ennesimo appello di professori militanti, sempre pronti a scagliarsi contro ogni forma di urbanistica moderna per invocare nelle politiche urbane un dirigismo statalista oramai morto e sepolto da decenni.
Il paradosso del Leoncavallo non è un caso isolato, ma è il sintomo di una crisi più profonda. Quello che vede le “anime belle”, che nel corso degli anni si sono sempre erette a paladine della legalità e della trasparenza, utilizzare paradossalmente un ricordo potente come quello del film di Rosi, non per denunciare l’illegalità, ma per schierarsi contro la legalità. Difendendo quello che per 25 anni è stato sostanzialmente tollerato con la complicità di istituzioni centrali e locali. A tal punto da far diventare il Modello Milano delle occupazioni abusive e illegali, non solo come quella del Leoncavallo, un modello da replicare in tutte le città italiane. E così il patrimonio immobiliare, in particolare quello pubblico, è diventato merce di scambio tra la politica e parte dei propri elettori. Colpisce, a Roma, la vicenda dell’immobile storico a via del Porto Fluviale, dove – a conclusione dei lavori di restauro finanziato con i fondi del Pnrr – pare torneranno a vivere le famiglie che lo occupavano abusivamente. E questo rovesciamento di valori è ciò che più colpisce nell’attuale situazione milanese. Un’ipocrisia che svela la natura strumentale di certe posizioni, dove la critica non è mossa da un’autentica ricerca di giustizia, ma da una logica di parte, pronta a difendere l’illegalità se questa serve a rafforzare la propria identità e la propria base politica.
E quindi oggi il Leoncavallo a Milano e domani chissà quale altro immobile pubblico occupato illegalmente in altre città, diventeranno il simbolo di una resistenza che non è più contro la speculazione, ma contro lo Stato di diritto, contro le regole che dovrebbero valere per tutti. E la critica politica alimentata dall’inchiesta milanese sul Modello Milano, per eterogenesi dei fini, si ribalta su chi si auto-proclama difensore della città, e che invece ne difende le sue zone d’ombra, le sue illegalità, infischiandosene di far crollare l’intero edificio della legittimità su cui si fonda la convivenza civile.
