Cos’è il diritto penale totale? E’ il nuovo proibizionismo

Se è vero che il potere politico-sociale sta nelle mani di chi ha il compito e la forza di qualificare come illecito un comportamento umano, possiamo dire che, nella società del “Diritto penale totale”, sono tanti i soggetti a questo legittimati. Tanti, dal giudice alle vittime fino alla realtà percepita e al pensiero dominante che sovrappone il peccato al reato. Ma non la norma penale, che dovrebbe essere l’unico soggetto a creare il confine tra il lecito e l’illecito. La norma penale che sta sempre più evaporando, sta assumendo un carattere relativo e privo di certezze. Mentre la decisione del giudice trova sempre più la propria legittimazione nel sentire sociale, nel contesto, nella percezione, nelle ragioni di “opportunità”. Una sorta di nuovo proibizionismo che sta avvolgendo come la tela del ragno le libertà individuali e la certezza della norma penale.

“Il diritto penale totale” (Il Mulino, pp. 88, 10 euro) è un testo del professor Filippo Sgubbi, ma è come fosse stato scritto, o suonato in concerto, a sei mani, visto che è completato dalle preziose introduzione e postfazione di giuristi come Tullio Padovani e Gaetano Insolera. Meno di cento pagine e pare ci sia proprio tutto, tanto sono dense e precise. C’è naturalmente una parte più politica, quel fenomeno che va sotto il nome di “supplenza”, una vera abdicazione, in corso ormai da qualche decennio, da parte del potere politico che, paralizzato dal gioco incrociato dei veti, ha perso legittimazione non solo consegnando alla giustizia compiti di governo e di pubblica amministrazione che non le sono propri, ma anche accettando di essere esposto, senza più alcuna immunità, al sospetto costante di corruzione e mafiosità. Così si è costruita la società etica, dove all’antinomia colpevole-innocente si è sostituita quella dei puri e degli impuri. Il reato, scrive Sgubbi, si è trasformato «in una colpa antropologico-sociale». E reato e colpa sono quasi uno stato naturale che prescinde e sicuramente precede il fatto. Quasi un peccato originale della società degli impuri. La casta, ovviamente.

Vien da pensare con nostalgia alla cara vecchia “notitia criminis”, il fatto. Con la ricerca delle prove e infine quella decisione del giudice che dovrà stabilire se il fatto storico accertato rientra nella fattispecie di reato previsto dalla norma. La prassi attuale è capovolta, non più finalizzata ad accertare la relazione tra un fatto storico e la norma, ma a “creare il fatto-reato”. E’ l’accusa che costruisce la responsabilità, non viceversa. Gli esempi di questi giorni non fanno che confermare questa realtà: dagli interventi a gamba tesa e contraddittori di diverse procure sull’Ilva fino alla vicenda Open-Renzi, paiono piuttosto chiari gli intenti della magistratura con questo nuovo rito. Assumere il ruolo degli estirpatori dei mali del mondo (lottare contro i fenomeni quali la mafia e la corruzione), governare direttamente e concretamente l’economia e la pubblica amministrazione, assumere la responsabilità della tutela dell’ambiente e della nostra stessa salute. Solo per fare alcuni esempi.

La procedura di questa giustizia creativa è una vera inversione del processo: la procura va alla ricerca di un fatto, poi avvia il processo e infine cerca le prove. Naturalmente tutto ciò non vale per i “puri”, quali in genere sono, grazie all’enfatizzazione dei media che le trasforma in eroi, le vittime. Le vittime vengono usate per linciare il giudice che assolve così come quello che condanna, se non ha trovato i mandanti. Ne abbiamo un esempio nell’enfatizzazione che viene data in diversi talk in questi giorni di “casi personali”, spesso tristi e angoscianti, usati come clave per sostenere l’abolizione della prescrizione.