Un fantasma, tra gli altri, si aggira per la disastrata Europa in cui viviamo. Questo cerca qualcuno che lo riporti in vita, proprio lui che era stato un protagonista della politica economica in tutto il secolo breve. Da Principe, a povero a dimenticato. Si chiama programmazione. Per specificarne una natura, tra le tante possibili, essa ha preso più aggettivazioni, come democratica, prescrittiva, indicativa e altro ancora. Ha avuto un parente ancor più autorevole e molto più potente, la pianificazione, che ancora da prova di sé in altra parte del mondo.
Qui, da noi, in Europa e, più in generale in Occidente, l’intera parentela è morta e sepolta. Sulla negletta programmazione è persino calata una “damnatio memoriae”. La vittoria del neoliberismo, come dell’ordoliberismo, ne ha preteso, e ne ha ottenuto la cancellazione. Pianificazione, programmazione sono parole che, da classiche nella politica di tanta parte del 900, sono diventate moneta fuori corso, parole e idee e azioni inusabili… Così, nel nostro tempo, la programmazione, in questa parte del mondo, si è trasformata in un paradosso. Da un lato, l’ortodossia, in economia, ne esclude il possibile uso e persino una qualsiasi riflessione su di essa. Semplicemente pretende che essa non esista. Dall’altro, un’idea di un futuro diverso dal presente su cui poter contare si propone come un’istanza, un’esigenza vitale di fronte alle innumerevoli condizioni di crisi economica, sociale, ambientale, civile in cui si è quotidianamente immersi e, più in generale, di fronte alla crisi.
Il paradosso della programmazione consiste appunto nell’essere negata proprio ora che la realtà concreta ne propone la necessità e, per di più, l’urgenza al fine di evitare il precipitare delle crisi in singoli disastri e per impedire l’avvicinarsi della crisi di civiltà alla catastrofe. Non è solo Greta a avvertirci della minaccia, sono gli studi e le ricerche più avvertite a farlo. Del resto, basterebbe aver letto la Laudato sì di Papa Francesco. Più vicina a noi parla drammaticamente la realtà del Paese e proprio sui tre temi più carichi di futuro, il lavoro, l’ambiente e il contrasto delle crescenti diseguaglianze. Il lavoro e l’occupazione sono stati trasformati nel ventre molle del sistema.
L’incertezza e la precarietà ne hanno disfatto lo statuto che testimoniava l’esistenza di una civiltà del lavoro. Ora anche il lavoro che veniva considerato stabile viene aggredito, vertenze storiche in difesa del posto di lavoro arrivano al limite, esplodono crisi aziendali mentre si annunciano dismissioni. Senza parlare del caso clamoroso dell’Ilva di Taranto, solo nel Lazio sono a rischio 15 mila lavoratori, quelli che un intollerabile vocabolario definisce come esuberi. Qui l’Unicredito si aggiunge all’Alitalia, alla Multiservizi, alla Sammontana, all’Auchan. E lo Stato, il pubblico sono senza voce. Ma lo stesso vuoto si misura quando si aprono enormi problemi di politica industriale, come nella fusione tra Fca e Psa dove si affacciano quelli della riconversione dell’automotive verso l’elettrico.
In questo stato di cose, neanche si può pensare ad avere un ruolo nel grande balzo tecnico-scientifico che investirà il lavoro fino all’intelligenza artificiale, che apre già interrogativi capitali sulla sua qualità e sulla sua quantità. L’impotenza della politica ha conseguenze disastrose. Gli interrogativi sul cosa, come, dove, per chi produrre dovrebbero al contrario riguardarla per prima; sono le domande della programmazione.
Quando la politica era viva lo sapeva. Era il 1949-50 e, di fronte alla questione storica che il lavoro proponeva al Paese, la Cgil di Giuseppe Di Vittorio lanciò il Piano del Lavoro, una proposta di politica economica e sociale, una proposta di mobilitazione che caratterizzò un’intera fase storica. Si dirà che oggi la sfida sul lavoro è divenuta ancor più ardua di fronte a un comando potente quanto sfuggente, dentro una centralizzazione del lavoro senza concentrazione della forza di lavoro e in una sua polarizzazione estrema. Ma senza un programma di valorizzazione del lavoro la crisi sociale si aggrava. La programmazione dovrebbe perciò investire i problemi della sua distribuzione, di una drastica riduzione dell’orario di lavoro, di un mutamento di fondo del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita, dovrebbe investire la questione del rapporto di potere tra il lavoratore e l’impresa, il tema dell’autogoverno, dell’autogestione. Si dirà che quelli del Piano del Lavoro erano altri tempi, e di un’altra politica… Senonché i tempi attuali, se è possibile, richiedono non meno, ma più capacità di progettare il futuro perché la crisi economica e sociale si colloca, adesso, in una condizione generale di instabilità e di incertezza.
La domanda su quale futuro si fa dunque più pressante e lo diventa tanto più in quanto siamo dentro la grande transizione. La questione ambientale, lo sconvolgimento del rapporto tra l’uomo e la natura ce lo mostrano con un’evidenza schiacciante tanto da diventare la base della mobilitazione mondiale di una nuova generazione, tanto da diventare il movimento che denuncia il rischio della catastrofe e le colpe di un’intera classe dirigente. Esso sta occupando le strade del mondo per chiedere il cambio.
La transizione è, del resto, il luogo per eccellenza della programmazione, cioè dell’elaborazione collettiva e politicamente impegnativa di un futuro diverso costruito su un diverso modello economico, sociale, ambientale e democratico. Quello che, nel ciclo precedente, caratterizzato da una adesione infondata all’idea di progresso, si era chiamato modello di sviluppo. L’avvento dei movimenti ecologisti ha favorito l’affermazione di una critica alla neutralità della scienza e la demolizione scientifica della tesi negazionista del rischio. Prende corpo la tesi sulla necessità storica dell’obiettivo di conquistare una condizione di qualità dell’ambiente e della vita in ogni parte del pianeta. Da noi, in Italia, quel che sta quotidianamente accadendo rende fisicamente evidente la condizione di pericolo in cui siamo immersi. Franano intere colline, crollano ponti storici; viadotti su percorsi di grande traffico vengono travolti dal fango. Venezia, luogo simbolo di una millenaria costruzione dell’uomo di un delicato ma durevole equilibrio tra l’organizzazione della sua vita sociale e tutti i molteplici e mutevoli fattori che compongono il suo habitat naturale, è sommersa dalle acque mentre il moloch della grande opera, il Mose, rivela tutta la sua impotente inutilità, non essendo neppure in condizione di poter essere avviato.
Sul terreno della modernità, dello sviluppo industriale la ricerca delle vie d’uscita dalla crisi non è meno impegnativa di futuro. Siamo dinnanzi a casi clamorosi di uno sviluppo industriale che ha messo in contraddizione salute e occupazione e che continua a far danni alla salute delle popolazioni e a minacciare, con i licenziamenti, l’occupazione. Se allora un processo di riconversione ecologica si fa necessario, con lui si fa necessaria la programmazione. L’ortodossia economica nega l’evidenza, per restare sul vecchio binario. Come si esce, infatti, dai casi di crisi e dalla più generale esposizione al rischio climatico e ambientale se non con un grande progetto di orientamento e di indirizzo generali, con un programma che ne preveda i tempi e i modi di realizzazione, con un piano di investimenti pubblici, con provvedimenti di incentivo e di disincentivo a quelli privati in funzione degli obiettivi scelti? Roosevelt chiamò la risposta del suo governo alla grande crisi, New Deal. Nuovo metodo dovrebbe essere, a maggior ragione, la risposta a questa crisi, la programmazione appunto.
Il terzo tema che chiede il ricorso alla programmazione per essere affrontato con le politiche di governo è la lotta alla diseguaglianza. Ormai le denunce dell’intollerabilità raggiunta di diseguaglianze nel nostro tempo sono tante, quasi un’inflazione di denunce. Però alla gran mole delle denunce non corrisponde alcuna conseguenza pratica, nell’agire economico e sociale, né parte delle imprese, né da parte dei governi, né da parte dei diversi agenti pubblici e sociali. Tanto clamore per nulla. Può sorgere il dubbio che persino le puntuali denunce delle diseguaglianze, che raggiungono livelli mai prima conosciuti in tutta la modernità, vengano divorate dal sistema delle comunicazioni e anestetizzate politicamente.
Vero è che ormai, oltre alle culture critiche, gran parte di quelle accademiche denunciano la gravità delle diseguaglianze e il loro crescente rivelarsi come un potente fattore di crisi della democrazia. Persino un consesso di Ceo delle più importanti imprese del mondo si è dichiarato molto preoccupato del fenomeno e ha proposto una correzione nei comportamenti delle aziende. Intanto le diseguaglianze si consolidano e, anzi, si accentuano. La politica, come le tre scimmiette, non vede, non sente, non parla. Certo conta il fatto che le denunce non raggiungano quasi mai la causa prima che genera le diseguaglianze, che è una causa che risale alla natura stessa del capitalismo finanziario globale che, a differenza dello stesso capitalismo che lo ha preceduto non tollera alcuna politica re distributiva.
Tuttavia, è decisivo nel determinare l’impressionante contrasto tra la vastità della denuncia del fenomeno e la totale mancanza di leggi e provvedimenti atti a combatterlo, l’assenza di un qualsiasi dibattito pubblico sulla inderogabile necessità, per poterlo realizzare, di un piano organico e di medio periodo, di una programmazione, appunto, nella quale entrino a pieno titolo, insieme, la dinamica salariale, le nuove necessarie fonti di reddito pubblico, una grande riforma fiscale, il contrasto alla rendita, la determinazione del ventaglio retributivo e di reddito socialmente accettabile. Il lavoro, l’ambiente e l’eguaglianza, in questa dolorosa transizione, reclamano una programmazione forte per poter uscire dalla drammatica crisi.
La risposta della politica è ancora un silenzio mortale. Eppure questa potrebbe non essere la risposta definitiva. Se non si può contare sulle varie specie di riformisti dall’alto, si può sempre contare sull’imprevisto. Intanto, in questo deserto della politica istituzionale, vorremmo poter interpretare diversamente da come l’ha letta il Presidente del Consiglio, la recente proposta avanzata dal segretario della Cgil, Maurizio Landini. Vorremmo interpretarla non come una proposta inattendibile, e, come è già accaduto foriera di grossi guai, una proposta di patto tra i produttori da realizzarsi sotto l’egida del governo, ma, al contrario, come una domanda di programmazione. Vorremmo interpretare la proposta del segretario della Cgil come la richiesta di mettere all’ordine del giorno della politica una nuova politica di programmazione.
