Cristini: “Mamdani come Trump, ha tradotto il malessere degli americani. Anche a Washington è in corso un regime change”

GRETA CRISTINI, ANALISTA GEOPOLITICA E REPORTER DI GUERRA

New York non è l’America, come la Gracie Mansion non è la Casa Bianca. L’elezione a sindaco della Grande Mela di Zohran Mamdani sta avendo lo stesso peso sui media della vittoria di Trump lo scorso anno di questi giorni. Serve una ricalibratura dei ruoli, però. Può essere che Mamdani faccia da apri pista a una new wave di democratici. Più radicali, più speculari alla corrente Maga dei repubblicani. In realtà, il risultato delle urne è ancora troppo fresco per valutarne gli effetti. Greta Cristini, analista di geopolitica, reporter e scrittrice, ci aiuta a capire dinamiche e sviluppi di questo nuovo capitolo della politica made in Usa

L’attenzione è tutta su Mamdani. Ha senso considerarlo come l’anti-Trump, oppure è dilatazione sproporzionata del fenomeno?
«Definire Mamdani “l’anti-Trump” è fuorviante. Il suo successo non nasce in opposizione al trumpismo, ma come effetto della stessa crisi americana che Trump ha intercettato prima di lui. L’erosione della classe media e il risentimento per la sua esclusione dal sogno americano, che a New York significa anzitutto rabbia per il costo della vita esorbitante, la mobilità sociale stagnante e la domanda di cambiamento rispetto alle vecchie élite. Sebbene agli antipodi, Trump e Mamdani sono figli dello stesso contesto di disgregazione del consenso americano. Mamdani ha tradotto quel malessere in chiave urbana e radical-progressista, spostando il baricentro della frattura politica dal piano ideologico (a cui i dem restano molto affezionati) a quello economico-sociale: lo scontro diventa fra chi beneficia della globalizzazione e chi ne paga il prezzo dentro le metropoli, chi può ancora permettersi di vivere in città e chi no».

La Fed sui tassi, la Corte suprema sui dazi, se vogliamo il Congresso con lo shutdown. Sono loro che possono contenere l’accentramento di potere di Trump?
«Queste istituzioni rappresentano potenziali argini al potere presidenziale, ma la loro efficacia è attenuata da difficoltà strutturali e dal disegno del presidente di erodere certi contrappesi in nome di un radicalismo costituzionale che vuole spostare il baricentro sulla presidenza. La Fed sta subendo una pressione volta a ridefinire, in senso politico, il suo mandato duale di mantenere la stabilità dei prezzi e massimizzare l’occupazione. Tra gli obiettivi del Project 2025 c’è proprio il superamento dell’indipendenza della Fed. Da autorità tecnica a strumento di politica economica del presidente. La Corte Suprema ha assunto un ruolo sempre più attivo nel bloccare o ritardare politiche presidenziali, agendo quasi più da policy-maker che da contropotere tecnico, e la crescente retorica di delegittimazione reciproca tra potere politico e giudiziario limita la sua forza deterrente. Il Congresso è il contrappeso per eccellenza, ma oggi è polarizzato e risulta inefficace per via della subordinazione alla capacità dell’esecutivo di dribblarlo. A oggi, l’amministrazione Trump ha invocato nove emergenze nazionali e adotta sempre più ordini esecutivi per aggirare il Campidoglio».

Tempo fa il sito dem The Liberal Patriot scriveva che gli Usa sono come la rana nella pentola. Si accorgeranno troppo tardi di essere bolliti?
«La democrazia americana non è ancora “bollita”, ma in crisi funzionale sì. Si configura una sorta di cambio di regime dall’interno, piuttosto che una dittatura imposta. E la causa è il fallimento di un sistema corroso dal collasso della fiducia popolare. Per schematizzare, ci sono due nodi principali: la diminuzione della fiducia nelle istituzioni e l’allargamento del potere esecutivo. Questa amministrazione sta contribuendo a una maggiore politicizzazione degli apparati, lo “Stato profondo”, con epurazioni e sostituzione con fedeli ideologici, l’uso delle Forze armate e di sicurezza sul fronte interno e la riscrittura delle regole elettorali. Va ricordato però che il governatore della California, Gavin Newsom, vincendo il referendum che ha ridisegnato la mappa elettorale statale, ha risposto giocando esattamente la stessa carta che i repubblicani hanno usato in Texas».

Esperienza insegna che il populismo si batte con agende pragmatiche. A Trump i dem hanno contrapposto Mamdani, ovvero un altro populista. Funzionerà?
«Occorre ridimensionare l’impatto della vittoria a New York City, che, come Los Angeles, Chicago e altre “città-santuario”, è saldamente sotto controllo democratico. Che ci aspettavamo? Addirittura Trump, che è un realista e conosce la sua città, ha fatto endorsement per un democratico d’establishment, Andrew Cuomo, anziché dare naturale sostegno al candidato repubblicano senza chance. Questo non significa che Mamdani sia privo di potenziale simbolico nazionale, anzi. I punti di rilievo, però, mi sembrano due. Primo, c’è ancora vita per i democratici, e questo per via dei buoni risultati ottenuti in California, New Jersey e Virginia, oltre che a New York. Com’era prevedibile un certo scontento verso Trump inizia a montare. Secondo, è iniziato lo scontro intestino per la prossima anima del partito democratico, ancora divisa fra establishment e ala populista radicale. Un passaggio che The Donald ha in gran parte risolto dentro il Gop, quando il trumpismo ha fagocitato i repubblicani di establishment. La vera domanda ora è sull’elettorato democratico: la radicalizzazione penetrata nell’elettore democratico newyorkese varrà anche per l’elettore democratico americano medio?».