Ci fu l’anno della tubercolosi, i pochi sopravvissuti ne riportarono le minuscole cicatrici, infisse nei polmoni, per tutto il resto della loro esistenza. L’anno del terremoto lasciò le case scoperchiate per tutto l’inverno. L’anno dell’alluvione, oltre alle vite, l’acqua si portò via pure le terre per gli orti. L’anno della poliomielite sputò fuori dagli usci solo quattro storpi che andarono a imparare l’arte dai calzolai. E un anno morirono tutti i nuovi nati, che nessuno figura nell’anagrafe quell’anno, e siccome non furono battezzati, si creò per loro un cimitero che si chiamò “dei paganelli”. Le civiltà contadine si ponevano di fronte a qualunque evento della natura come prede, maledicevano ogni malasorte, ma in fondo la accettavano come componente ineluttabile di un contesto di natura rispetto al quale non cercavano il predominio.
Certo non volevano perire, lo mettevano in previsione, combattevano ciò che potevano, con quello che avevano di esperienza o scaramanzia. Per il resto si nascondevano dai mostri. Le civiltà del benessere economico sono impegnate a capovolgere i termini: cercano gli eventi avversi, vogliono anticiparne le mosse e sovvertono i ruoli. L’uomo tecnologico non ci sta ad essere preda, si è fatto cacciatore di tutto ciò che ne minaccia l’esistenza, non fa parte di un contesto di natura, se ne sente il protagonista assoluto: tutto può e deve essere piegato alle esigenze dell’uomo. L’arte predatoria è sempre più congeniale a una parte dell’umanità, a quella che concentra beni, ricchezze, che si appropria del futuro.
Quella umanità per cui una vita si valuta in base a ciò che produce, e la cui priorità sono le vite produttive. È questa parte del mondo, quella del super predatore, che è in crisi, spiazzata, nel tempo di una minaccia epidemica. L’altra parte, quella che ha continuato a vivere da preda, aggiungendo ai predatori naturali l’uomo economico, non è sorpresa, tutto continua nell’ordine naturale delle cose. Le civiltà contadine continueranno a nascondersi dal fulmine e riprendere normalmente dopo la fine del temporale.
Per le civiltà tecnologiche la fuga è un dramma colossale, mollare tutto e nascondersi in casa è un concetto che ormai sembrava geneticamente espulso dal corredo cellulare della modernità. E invece, ecco, tutti confinati al domicilio, a intonare canti propiziatori dalle finestre e dai balconi. Come contadini qualunque, e per un tempo che nessuno ancora sa contare. E dopo, non si sa se i sopravvissuti andranno a imparare il mestiere dai calzolai o torneranno a cacciare i mostri, convinti che potranno sterminarli tutti.
