Da Parigi all’Italia, gli eventi judenfrei in cui gli ebrei vengono messi da parte

L’Air Show di Parigi, il Salone internazionale dell’aeronautica e dello spazio che si tiene all’aeroporto Le-Bourget, quest’anno si è fatto lietamente Judenfrei. Un po’ come – anzi esattamente come – il Mediterranean JuJitsu Open 2025 appena concluso qui da noi, a Ostia.
Lassù, negli spazi di quella rassegna dei prodotti e delle invenzioni del settore aeronautico e aerospaziale, gli stand delle imprese israeliane sono stati accuratamente impreziositi da una guarnigione di pannelli oscuranti, un grazioso allestimento ghetto-style posto a impedire che lo sguardo dei visitatori fosse insultato dalla vista delle produzioni di stampo giudaico.

Quaggiù, invece, nel bel sole del nostro Lazio, un ragazzino ebreo che aveva vinto la medaglia d’oro nella sua categoria a quella competizione di JuJitsu – Daniel Boaron – ha dovuto ritirare il premio dietro le quinte, di nascosto, niente inno nazionale, niente bandiera di Israele, niente saluti, perché vedi mai che qualcuno si indispettisce se un sedicenne dello Stato genocidiario sale impunemente sul palco del vincitore. La prima scena, quella delle imprese israeliane ghettizzate allo show parigino, rimanda dritta dritta a quella degli ebrei cui i signorotti d’Italia e d’Europa si rivolgevano per ottenere credito, salvo ricoprirli di sputi se li incontravano per strada o sotto le arcate di un ponte veneziano. I sistemi aeronautici e aerospaziali, così come i farmaci e i vaccini, approntati delle aziende dell’Entità sionista soddisfano grandemente le esigenze di sicurezza degli acquirenti, ma è bene che il loro profilo osceno non sia mostrato.

Il frutto della loro ignominia fa comodo, è utile, ma teniamoli separati, nei recinti in cui coltivano la loro avidità maligna. E così quel ragazzino (sedici anni, perdio), magari facciamolo pure partecipare alle gare: ma se la prenda nel sottoscala la medaglia, e non pensi di essere felice ritirando il trofeo davanti a tutti e ascoltando l’inno del proprio Paese maledetto. È ebreo, lo capisca senza tante storie che va bene così, e cara Grazia che gliel’abbiamo fatta fare questa gara. Dice: “Ma magari c’erano ragioni di sicurezza che sconsigliavano la premiazione in pubblico!”. Se fosse così dovrebbe essere anche peggio, a noi pare. Se c’è anche solo l’ipotesi che un bambino ebreo – nel Paese che ha scritto le leggi razziali – non possa salire sul palco per il pericolo di qualche fischio, anche solo di qualche mugugno, o peggio per il rischio di qualche più seria dimostrazione ostile, tu allora dovresti fargliene tre di palchi, e il suo inno dovresti farglielo suonare tre volte. E chi si azzardasse anche soltanto a sospirare qualcosa dovresti prenderlo per l’orecchio e cacciarlo a pedate.

Questo, almeno, in un Paese decente che dimostri di aver fatto i conti con il proprio passato ignominioso. Niente da fare, invece. “Volevo salire sul podio e cantare l’inno”, ha detto Daniel. Impari a non nascere ebreo, la prossima volta. E quelle imprese israeliane schermate allo show parigino imparino una buona volta a farsi gli sporchi affaracci loro senza pretendere di esporre le loro realizzazioni sataniche, dispositivi da genocidio e da pulizia etnica. Che magari li usano addirittura per intralciare con perfidia la sacrosanta reazione di difesa della resistenza iraniana ingiustamente aggredita, questi mascalzoni.