Da Pasolini ai talk show, la rabbia ha perso il suo senso rivoluzionario

Oggi la letteratura si è riavvicinata alla rabbia: non tanto nella narrativa quanto in alcuni monologhi teatrali (penso a Stefano Massini e al Poiana di Andrea Pennacchi). Ma il genere in cui la rabbia sembra aver assunto il ruolo di ingrediente principale sono i testi della musica trap, declinazione popolare della poesia contemporanea. Nei versi dei trapper italiani c’è molto maledettismo di imitazione, ripreso dal gangsta rap americano; è quello che colpisce i benpensanti, inducendoli a ridicole richieste di censura (o di impensabili palinodie) – ma c’è anche molta rabbia autentica che varrebbe la pena di confrontare con quella di sessant’anni fa. La cosa che colpisce di più è che questa rabbia attuale sembra contenere in sé la previsione del proprio fallimento. «La mia rabbia non volevo sprecarla così», dice Anastasio in Rosso di rabbia, come se già si vedesse in un abito rosso fiammante sul palco di Sanremo, applaudito dal pubblico in smoking; e infatti aggiunge «non è roba da poco/ strillare mentre questi mi fanno le foto». Che la loro rabbia sia destinata a finire in glamour, sembra esser dato per scontato dai più sensibili e più bravi di loro, ed è forse questo che conferisce un tono di malinconia e depressione disincantata ai testi di Achille Lauro o di Rancore (che scrive «la musica è libera quanto un’ora d’aria in carcere»). Spesso è su una base di amore disperato che si accampano gli eccessi di machismo o menefreghismo, le affermazioni orgogliose di droga e diversità. Il più politico di loro, Massimo Pericolo, brucia in un video la propria scheda elettorale; la percezione acuta dell’ingiustizia sociale lo spinge al rifiuto della politica e della scuola, scrive «andrei a pisciare sulla tomba di chi mi ha messo al mondo» con la (in)sofferenza di Rimbaud che scriveva “merde à Dieu” sulle panchine di Parigi. A questi ragazzi, per sottrarsi allo spettacolo, non restano che l’anarchia e l’autodistruzione.