“Siamo nel mezzo di una guerra intensa in cui abbiamo ottenuto successi storici molto importanti perché non eravamo divisi, perché eravamo uniti e abbiamo combattuto insieme”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ne è sicuro. Dopo avere riunito i suoi ministri, il capo del governo ha voluto ribadire la necessità di rimanere uniti. E di continuare a perseguire i tre obiettivi che intende realizzare nel conflitto contro Hamas: “Sconfiggere il nemico, liberare i nostri ostaggi e garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele”. Per questo motivo, “Bibi” ha deciso di convocare già nei prossimi giorni il gabinetto di sicurezza e di dare alle Israel defense forces le istruzioni definitive per realizzare tutti gli scopi prefissati in questa campagna.
Un segnale chiaro. Un segnale per cercare di compattare il governo in una fase in cui la pressione interna, oltre a quella internazionale, inizia a essere sempre più soffocante. Ieri, il primo ministro dello Stato ebraico ha subito uno dei colpi più duri, almeno tra quelli recenti, non solo nei confronti della sua leadership ma anche della sua immagine di persona capace di condurre il Paese in guerra. Più di 600 ex funzionari e vertici della sicurezza, tra cui ex capi del Mossad e dello Shin Bet, hanno pubblicato un duro “j’accuse” nei confronti del primo ministro e hanno chiesto direttamente al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di premere sull’esecutivo per mettere la parola fine alla guerra nella Striscia di Gaza. “Secondo il nostro giudizio professionale, Hamas non rappresenta più una minaccia strategica per Israele e la nostra esperienza ci dice che Israele ha tutto ciò che serve per gestire le sue residue capacità terroristiche, a distanza o in altro modo”, hanno dichiarato gli ex funzionari. “Questa guerra non è più una guerra giusta e sta portando lo Stato di Israele a perdere la sua identità”, ha chiarito l’ex direttore dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna, Ami Ayalon. E la denuncia firmata da ex capi dei servizi segreti ed ex capi di stato maggiore rappresenta un avvertimento di non poco conto per Netanyahu e per il suo governo. “Bibi”, con la dichiarazione durante la riunione del governo, ha in qualche modo risposto a queste accuse rispendendole al mittente.
Tuttavia, è chiaro che adesso il pressing sul premier sia alto, specialmente dopo le immagini diffuse da Hamas e dal Jihad islamico palestinese che hanno mostrato due ostaggi, Evyatar David e Rom Braslavski, gravemente denutriti, ridotti a degli scheletri umani, traumatizzati, in lacrime e addirittura costretti, nel caso di David, a scavarsi da soli la propria tomba. Le immagini drammatiche degli ostaggi sono state diffuse proprio con l’autorizzazione delle famiglie dei rapiti, che hanno deciso di rendere pubblici quei video anche per dare uno shock all’opinione pubblica e sollecitare Netanyahu ad accelerare sul negoziato. Ma l’idea di Hamas, che secondo il Jerusalem Post è stata già riferita ai mediatori, è che per tornare a negoziare sia indispensabile, come precondizione, quella di fare entrare almeno 250 camion di aiuti al giorno. E come ha spiegato un funzionario israeliano, all’interno del governo Netanyahu si è ormai diffusa la consapevolezza che Hamas non sia disposta davvero a raggiungere un accordo. “Siamo in trattative con gli americani. Di conseguenza, il primo ministro sta spingendo per il rilascio degli ostaggi, perseguendo al contempo una soluzione militare, unitamente alla fornitura di aiuti umanitari alle aree al di fuori delle zone di combattimento e, per quanto possibile, alle regioni che non sono sotto il controllo di Hamas”, ha spiegato la fonte interna all’esecutivo.
Sul tavolo, quindi, torna l’opzione militare. Una mossa che potrebbe essere anche un ultimo avvertimento nei confronti della milizia palestinese, ma anche una scelta legata al fatto che, arrivati a questo punto, la guerra deve avere una svolta. Soprattutto perché sia Trump che la comunità internazionale in generale chiedono che nella Striscia di Gaza, così come in tutto il Medio Oriente, cambi qualcosa. Nei giorni scorsi, anche Papa Leone XIV è tornato a parlare del conflitto. “Siamo con i giovani di Gaza, siamo con i giovani dell’Ucraina, con quelli di ogni terra insanguinata dalla guerra”, ha detto il pontefice. Mentre ieri, Netanyahu ha avuto la seconda telefonata in una settimana con Vladimir Putin. Una conversazione in cui il presidente russo ha chiesto la soluzione dei vari conflitti in Medio Oriente e in cui si è proposto di facilitare il negoziato sul programma nucleare iraniano.
