Dal neorealismo a oggi, la cultura è solo per le élite

Quando si leggono libri di scrittori americani considerati realisti – da Ernest Hemingway a John O’Hara, da Richard Yates a Raymond Carver – nelle pagine si incontrano feste, tuffi in piscina, cocktail, Rolls Royce, ville con donne fatali, mentre il realismo raccontato dagli scrittori italiani propone solo uomini in canottiera con la barba sfatta, donne in vestaglia, camioncini Iveco ammaccati, scaldabagni arrugginiti. Oggi, per provare a capire questa diversità, ci viene incontro il nuovo libro di Gianni Canova, rettore dell’università Iulm di Milano, che a un certo punto del suo Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale (Bompiani) conia la felice espressione di “estetica del pezzentismo”.

Canova parla di cinema, non di letteratura, ma per molti aspetti il ragionamento non cambia. Il neorealismo nel cinema, secondo Canova, viveva il paradosso di un cinema sul popolo ma non per il popolo, il paradosso permetteva di fare film socialmente importanti solo per dare alla coscienza del regista l’alibi per girare film colti che si rivolgevano ad altri intellettuali. Scrive Canova: «Il nostro cinema – come è noto – abbonda di sottoproletari, di marginali, di poveracci, di pezzenti, è attratto dagli aristocratici “alla Visconti”, ma si mostra titubante se non addirittura riluttante all’idea di raccontare la borghesia». Il fenomeno non si arresta con il bianco e nero, anche il recente e premiato documentario Sacro Gral giustificherebbe il poco pubblico con «la buona causa della messinscena degli ultimi, dei marginali, dei “pezzenti”».

Queste opere compiaciute, elitarie, a volte false o indigeribili, malate di “culto del reale”, sono state spesso capaci di annoiare e allontanare il pubblico dalle sale: «Abbiamo commesso la colpa più grave: abbiamo reso la cultura noiosa. Conformistica e noiosa. Peggio che bruciare i libri. Perché nel fuoco, almeno, c’è un odioso atto di censura a cui qualcuno si può ribellare». La prima parte del libro, come si intuisce, ha il tono del pamphlet, schietto e appassionato, in cui si va alla ricerca delle cause di un’ignoranza diffusa e ostentata nell’Italia di oggi.

Un’ignoranza che permette ai politici di pronunciare frasi come: «Noi non ci occupiamo dello spread ma dei cittadini italiani», frasi che invece di suscitare l’indignazione generale sono accolte dal consenso, altrettanto incompetente, di chi ascolta. Chi sono i responsabili? Sul tavolo degli imputati Canova mette direttori di giornali e di grandi media, chi ha gestito negli ultimi cinquant’anni la televisione pubblica, chi ha gestito l’università e la scuola. Ecco che affiora all’orizzonte il solito nervo scoperto, lo snobismo dei dotti: «Siamo un paese che non ha mai accettato fino in fondo l’idea di industria culturale e che continua a bamboleggiarsi con quei cascami tardo-romantici che identificano il successo di un prodotto culturale come un disvalore».

Un esempio per tutti, secondo Canova, è la provocazione che lanciò Pietro Citati dal Corriere della Sera quando sostenne che è meglio non leggere nulla, e non prendere neanche in mano un libro, piuttosto che leggere i bestseller di autori come Giorgio Faletti o Paulo Coelho. Questo modo di contrapporre cultura alta e bassa – «o sei côté “cinepanettone” o sei côté “Alice Rohrwacher”» – è per Canova la trappola da cui si dovrebbe uscire guardando ai prodotti di qualità anche legati ai generi, da Petri a Monicelli, da Argento a Leone.

Bene criticare l’indifferenza di scrittori e registi nei confronti del pubblico; ottimo strigliare gli accademici che pensano più «alle carriere dei professori, e agli allievi dei professori, e alle scuole dei professori, e agli interessi degli amici dei professori» che agli interessi delle giovani generazioni. Peccato che questo libro, di 243 pagine, risponda alle premesse del titolo e della presentazione solo fino a pagina 69.

Alla prima parte infatti, che comunque «mescola materiali inediti con la rielaborazione di alcuni articoli usciti sul magazine 8 ½», segue una seconda parte che si attiene a una delle peggiori pratiche accademiche: la riproposizione di vecchi saggi rimessi insieme. Leggendo questa seconda parte viene inevitabilmente da chiedersi con che asprezza Canova tuonerebbe contro questa operazione editoriale – tipica proprio del mondo accademico sul quale ironizza tanto – in cui si confezionano libri-collage riciclando pezzi ormai datati. Usare come esca in libreria un titolo “accattivante”, Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste una democrazia culturale, per offrire al lettore articoli degli anni Ottanta non rientra a pieno titolo in quelle pratiche accusate da Canova, quelle che respingono il pubblico dalla cultura?