L’Europa rilancia a Trump. A quasi due settimane dalla proposta americana di dazi al 30% sull’import europeo, il comitato Barriere commerciali di Bruxelles ha dato l’ok alla controproposta. Con 26 voti favorevoli su 27 – unica contraria l’Ungheria – l’offerta prevede una tariffa secca al 15% e una lista unificata di prodotti interessati. Si passa così da un regime di 10% dazi, che gli esportatori europei stanno pagando da aprile, aggiuntivi alla tariffa del 4,8%, già in essere prima del Liberation day. Di fatto, sarebbe un balzello impercettibile. Addirittura in riduzione rispetto al 27,5% che, per esempio, pesa sull’auto. L’accordo prevedrebbe l’esenzione tariffaria per alcuni prodotti quali aerei, alcolici e medicinali. Il no di Washington farebbe scattare prima le contromisure – dazi sull’import dagli States fino al 30% – poi il bazooka, con ritorsioni ancora più dure, fino al ricorso al Wto.
L’obiettivo Ue è replicare il modello giapponese. I dazi reciproci dovrebbero scongiurare il 30% della minaccia iniziale. Bisogna capire però se il tycoon sia d’accordo. I presupposti portano a dubitarne. Il tycoon pretende di avere l’ultima parola. Lui ha fatto saltare il sistema, già sgangherato di suo. A lui spetta dire: “Les jeux sont faits”. Ben sapendo, peraltro, che i dazi sono interpretati dal Tesoro Usa come una tassa per ripianare il debito pubblico. Visione sui generis dell’economia politica, ma tant’è.
Consapevole di questo, l’Ue preferisce non precludersi nessuna opzione alternativa. «Pur mirando a una soluzione negoziata, diciamo che tutti gli altri strumenti sono sul tavolo e lo rimarranno fino a quando non avremo un risultato soddisfacente», ha detto Ursula von der Leyen nella conferenza stampa finale del vertice Ue-Cina, appena informata del risultato del comitato. La missione a Pechino fa il paio con l’incontro di metà mese a Bruxelles tra la leader europea e il presidente indonesiano Prabowo Subianto. Evento che ha portato a un accordo preliminare finalizzato all’allentamento delle reciproche barriere commerciali. Il sud-est asiatico e l’estremo oriente restano prioritari nell’agenda europea, qualora le cose con Trump finissero male. Per noi sono mercati strategici in fatto di esportazioni, ma anche di supply chain per la nostra industria.
Tornando alla proposta indirizzata a Washington, per tempi e modalità, è ragionevole pensare che Bruxelles si sia mossa dopo aver ottenuto l’implicito via libera dei suoi azionisti di maggioranza. Mercoledì sera a Berlino il cancelliere tedesco Merz si è visto in un bilaterale con il presidente francese Macron. Nel menù della cena erano previsti i dazi. Il padrone di casa ha aperto alla linea più intransigente che Parigi, da sempre, auspica di adottare. L’economia tedesca – e con essa quella italiana – è più legata al mercato Usa di quanto non sia quella francese. Da qui la cautela mantenuta finora da Merz. L’incontro conferma che la cosiddetta E3 c’è e lavora in parallelo con l’Ue. Sta tornando l’Europa a trazione franco-tedesca, con l’appoggio esterno del Regno Unito. Merz è stato anche a Londra nelle settimane scorse. Tuttavia è lecito dubitare dell’efficacia dell’operazione.
Sono altamente prevedibili le contrarietà che potrebbero emergere qualora il motore “Merzcron” – nome orrendo, ma così l’ha etichettato la stampa brussellese – venisse spinto troppo in avanti. L’Italia sarebbe la prima ad alzare la voce. E pure giustamente. Inoltre, tra Parigi e Berlino, sono molti più i nodi irrisolti di quanto non siano le prospettive condivise. Dagli accordi di libero scambio con il Mercosur – che in vista dei dazi non andrebbero sottovalutati – all’energia, passando per la Difesa comune e la proposta di budget 2028-2034, avanzata da Ursula von der Leyen la scorsa settimana e sul quale Berlino ha già detto nein!
