A tre giorni dall’accordo Trump-von der Leyen, l’onda lunga delle reazioni ai dazi prosegue. D’altra parte, il quadro è tutt’altro che definitivo. La nota della Commissione Ue, ieri, dice chiaramente che l’intesa non è vincolante. E che restano alcuni punti da chiarire. Su farmaci, chip e digital tax sembra che Bruxelles abbia detto una cosa, mentre Washington ne abbia sentita un’altra. O viceversa, chissà. Preso atto di queste incognite, ha più senso l’attendismo dei governi italiano e tedesco, invece che la linea intransigente di Francia e Spagna.

La posizione sfavorevole

Chi critica Ursula von der Leyen non vuole ammettere la posizione negoziale sfavorevole in cui si trova l’Europa. E non solo nei confronti degli Stati Uniti. Da anni infatti, i protagonisti del mondo produttivo suonano i campanelli d’allarme sulla competitività dell’industria europea. Prima per il Green Deal, poi per il Covid. Dopo ancora per la crisi energetica e delle supply chain. Al netto di sussidi a breve termine e recovery plan, l’Unione europea non è stata in grado di correre ai ripari. Nemmeno dopo il warning di Mario Draghi. Di cui in questo momento si sente la mancanza. Appaiono pretestuose quindi le critiche che, almeno a livello nazionale, vengono indirizzate a Bruxelles. «Se l’intesa non è vincolante, perché Meloni ha raddoppiato gli acquisti del più costoso Gnl americano nei primi sei mesi dell’anno?» si chiede polemicamente il senatore cinquestelle Mario Turco. Semplicemente perché i due accordi non sono connessi tra loro. Dello stesso mood pregiudiziale la richiesta del vice premier Salvini alla Bce di abbassare i tassi e all’Ue di azzerare il Patto di stabilità. Scelta, questa, che si tradurrebbe in un bazooka simile a quello di Macron, salvo essere puntato contro i nostri conti pubblici.

Il sentiment dell’economia

Lasciando da parte il dibattito politico, è il sentiment dell’economia a dover essere seguito. Imprese, parti sociali, territori sono i diretti interessati di un regime tariffario prossimo venturo che comporterà cambiamenti radicali. La linea comune è: ok, i dazi non saranno una cena di gala, ma senza gli Usa non si va da nessuna parte. Troviamo allora fare politica industriale. Meglio se a trazione Ue. «I dazi rischiano di creare molti più danni alla economia americana che ai mercati dove vengono applicati», dice Giordano Riello, quinta generazione di imprenditori specializzati nella climatizzazione. «Da decenni gli Stati Uniti hanno abbandonato molte lavorazioni, perlopiù a basso valore aggiunto, che oggi importano da Paesi dove la manodopera ha costi decisamente inferiori. Perlopiù in Asia. Questo, unito al loro deficit di commodity, si tradurrà in un vero e proprio dazio, mi perdoni il gioco di parole, che il consumatore americano dovrà pagare». Coerente con quello che si dice nel veronese, dove l’imprenditore “deve sempre alzare la testa dal tornio senza, però, perderlo di vista” Riello è convinto delle potenzialità europee nell’affrontare questa sfida. «L’Italia si è storicamente contraddistinta per produzioni ad altissimo valore aggiunto e ad alta personalizzazione nelle diverse nicchie di mercato. Per questo, credo che le tariffe avranno impatti più contenuti rispetto a quanto si possa pensare».

Linea altrettanto realista sul fronte sindacale. «L’intesa sui dazi offre al nostro sistema produttivo una certa stabilità e prevedibilità», commenta Daniela Fumarola, Segretaria generale Cisl, la quale però non nasconde la preoccupazione per un dollaro debole – in contrasto all’euro oggi troppo forte, come fa notare il vice premier Tajani – che penalizza l’export europeo. «La soluzione – aggiunge Fumarola – va trovata ripensando il modello produttivo del Paese. Oggi l’Italia resta troppo dipendente dall’export e occorre puntare di più sulla domanda interna, con un significativo aumento di produttività e salari». La Cisl torna così sul nuovo patto sociale, già proposto alla premier Meloni in sede di congresso e che avrebbe ricadute virtuose non solo in fatto di occupazione, ma di produttività; handicap della nostra economia.

Più cauta la voce dei territori, infine. Da Regione Lombardia, cuore politico della prima manifattura d’Europa, l’Assessore allo sviluppo economico, Guido Guidesi, osserva che «l’accordo è utile solamente a chiarire e definire le regole senza lasciare le aziende nell’incertezza, la quale non consente quella programmazione invece fondamentale perché la nostra industria non si fermi». Guidesi pone l’attenzione quindi sull’invasione di prodotti cinesi, che «limitano non solo il nostro potenziale di export, ma anche la nostra capacità di produrre. Di fronte a questo, regole, burocrazia e rigidità europee rischiano di portarci a un suicidio industriale». Oggi in Confindustria è in programma un incontro tra le parti fissato da tempo. Modernizzazione delle relazioni industriali, produttività, competitività. Questa l’agenda ufficiale. Non è escluso che salti per parlare di come l’Italia possa navigare in questa globalizzazione rimasterizzata.