Dazi, l’Europa va al braccio di ferro con Trump: misure da oltre 90 miliardi di euro

MAROŠ ŠEF?OVI?, COMMISSARIO EUROPEO PER IL COMMERCIO E LA SICUREZZA ECONOMICA

La doccia fredda di sabato pomeriggio, con quel 30% di dazio, scritto nero su bianco da Trump, ha peggiorato la situazione in Europa. Ed è probabile che il presidente Usa mirasse proprio a questo. A Bruxelles si percepisce tensione. Le singole capitali Ue stanno tornando ad arroccarsi su posizioni contrarie tra loro e spesso conflittuali. I prossimi 18 giorni saranno tesi.

«Questa incertezza non può persistere all’infinito», mastica amaro il Commissario Šefčovič, all’arrivo al Consiglio Ue, dopo tante settimane di trattative che si sono rivelate inefficaci. «Gli europei hanno sbagliato però nel concedere troppo prima che si arrivasse a un deal», osserva Giuseppe Russo, economista del Centro Einaudi. «Dalla cancellazione della web e della minumim tax, all’acquisto di Gnl, fino al 5% delle spese militari. È vero che, in fase di contrattazione, tutti calano le proprie carte. D’altra parte, prima di queste aperture, avremmo dovuto conoscere il dazio che gli Stati Uniti intendevano imporci. Adesso ci troviamo sguarniti».

Da oggi al primo di agosto, possono cambiare tante cose. «Difficile però che si passi dal 30% a zero», aggiunge Russo. «A meno che gli Usa non decidano di venirci incontro. La quota espressa nella lettera è fatta per sorprendere l’opinione pubblica e magari essere ribassata. A un’eventuale revisione però, noi ci stiamo arrivando nel peggiore dei modi». Senza buone carte in mano, ma anche separati in casa. Il ministro francese per il commercio estero, Laurent Saint-Martin, ha ribadito che nessuna via è un tabù. Parigi torna quindi sulla linea dura che, a giudizio di molti, è quella che ha portato gli Usa ad aumentare la percentuale della tariffa. Altrettanto c’è chi addossa la responsabilità dei fatti alla posizione italiana, ma non solo, del negoziato a oltranza. Stando alle mosse di ieri, Bruxelles pare optare per la muscolarità. Chiuso il Consiglio Ue per il Commercio, Šefčovič ha confermato un secondo elenco di beni statunitensi colpiti da potenziali dazi. Misure che si sommerebbero al primo pacchetto di 21,5 miliardi di euro attualmente congelato e porterebbero la risposta europea complessiva a oltre 90 miliardi di euro. «Siamo preparati a qualsiasi esito». Il monito di Šefčovič non deve far dimenticare che mancano oltre due settimane alla deadline dei negoziati.

L’Italia, da parte sua, è certamente tra le economie più esposte al protezionismo trumpiano. Insieme alla Germania. Da qui la cautela. «L’Europa deve trattare a testa alta, tutelando l’interesse della sua industria, cercando di evitare una guerra commerciale. Bene rinviare le nostre misure al 1° agosto, così c’è il tempo di discutere», osserva il ministro degli Esteri, Tajani. L’Italia è in recessione industriale e il mercato Usa è per noi strategico. Viene da chiedersi quanto i dazi possano diventare un capro espiatorio ai nostri mali strutturali. «La mancata crescita europea è data dalla incapacità di esprimere innovazione nella stessa misura in cui avviene tra Usa e Cina», osserva Russo. «Paghiamo lo scotto della nostra difesa a oltranza dei settori maturi. Oltre che le distorsioni in fatto di Iva e rigide normative igienico-sanitarie nelle importazioni dai mercati extra Ue. Inoltre, va aggiunta la bassa domanda interna, che per essere compensata ci tocca esportare».

I dazi fanno da sovraccarico a una mancanza di competitività denunciata dai rapporti Draghi e Letta prima ancora del secondo mandato di Trump. Nessun alibi al Tycoon, quindi. E in ogni caso, le decisioni di Washington dovrebbero indurre l’Europa a trovare mercati alternativi. «Ce ne sono, sì. Il Pil mondiale cresce», dice Russo, facendo così capire che ci si può allontanare da un’America improvvisamente ostile. «L’India, per esempio, ha una fascia di consumatori medio-alta che può avvicinarsi, portafoglio alla mano, ai nostri prodotti. Non è detto però che lo stile di vita dei borghesi indiani, o di altrove, coincida con le caratteristiche del made in Italy. Come avviene, invece, con il consumatore americano che è molto simile a quello europeo. Questo significa ripensare le nostre produzioni, in linea con domande di mercato lontane e strutturalmente differenti. Dobbiamo capire cosa vogliono. Serve investire anche qui».