Dazi, l’ottimismo di Arfaras: “Scongiurato lo scenario peggiore, gli Usa si stanno facendo del male, a noi è arrivato qualche pugno”

GIORGIO ARFARAS, ECONIMISTA

«La farei meno tragica di quello che la sinistra e certi giornali tendono a descrivere». L’accordo Usa-Ue sui dazi al 15% è fresco e i dettagli sono in divenire. Ma Giorgio Arfaras, economista del Centro Einaudi, ne definisce nettamente le linee: «La politica torna protagonista nel commercio internazionale».

Meno tragica in che senso, professore?
«Molti si aggrappano a quanto successo per criticare l’Europa: Bruxelles avrebbe dovuto fare di più, von der Leyen è debole e via così. Un attacco facile, se si vuole, dal punto di vista giornalistico e di una certa politica. In termini economici, c’è poi chi la fa tragica per ottenere finanziamenti, altrimenti è costretto a licenziare. Insomma, un concorso di interessi a dire che è stato un fallimento».

Invece non è così?
«No. Se si osservano i fatti, si capisce che si è riusciti a evitare lo scenario peggiore. Sono due le cose più importanti nell’accordo. Compri armi dagli Stati Uniti. Il che, finché c’è Putin, male non ti fa, visto che tu non sai produrle. E comunque puoi girarle all’Ucraina. Il secondo vantaggio è quello del gas. Tolto quello russo, che non puoi riprendere a usare, come invece vorrebbe una certa sinistra italiana, e senza fonti sicure, ti conviene restare legato al Gnl Usa».

C’è anche altro?
«La terza è la mancata presa di posizione sulle esenzioni fiscali dell’high tech. Le imprese tecnologiche hanno finanziato la campagna elettorale di Trump. È evidente che, nella sua operazione di lobbying, lui voglia sdebitarsi. L’Europa non gliel’ha concesso. O almeno così pare. Von der Leyen non è così molle come la dipingono. Del resto, non si capisce perché la filiera digitale dovrebbe essere esentasse qui in Europa per questioni tutte statunitensi. L’ultima cosa riguarda gli investimenti: 600 miliardi di dollari in cinque anni per le imprese europee che vanno a produrre negli Usa».

100 miliardi di dollari l’anno. Praticamente nulla.
«Una faccenda più mediatica che di sostanza. Ci si illude che così le imprese europee aprano stabilimenti negli Stati Uniti. Se l’economia americana fosse stata così competitiva, le nostre industrie ci sarebbero andate comunque. Ora certo che non ci vai. Primo perché i dazi non sono sufficienti a rilanciare il manifatturiero americano. Secondo perché non sai quanto durino. Combinando i loro risultati negativi, che non segneranno la svolta per l’economia Usa, con le elezioni mid-term, può essere che Trump i dazi li tolga addirittura».

C’è chi dice che i dazi porterebbero a un 0,3-0,5% di inflazione. Non è molto. È così?
«Per ora sì. Il punto però è più complicato. Trump vuole un taglio drastico dei tassi. Addirittura negativi. Da qui l’idea di controllare la Fed come se fosse una specie di banca centrale turca che obbedisce al volere dell’autocrate di turno. Ora l’inflazione è al 2-3%. Portandola all’1%, cominceresti ad avere un deficit ancora più ampio, perché, di fronte a un rischio di tassi negativi, ecco che i mercati chiederebbero dei tassi di interesse ancora più alti, che alimenterebbero il debito pubblico. Il taglio delle spese previsto dal Big Beautiful Bill non è minimamente sufficiente per compensare il previsto taglio delle imposte. Così pure i dazi non sono in grado di coprire il taglio delle imposte. Quindi, con un bilancio pubblico in forte ascesa, una politica monetaria lasca dovrebbe finanziare il deficit. Solo che i tassi sono alti e il debito pubblico costa sempre di più. Ecco perché Trump li vuole abbassare. Peccato che i mercati non ci stiano».

Quindi i dazi non servono a nulla?
«Io la vedrei così: con i dazi, gli Usa si stanno facendo del male, a noi è arrivato qualche pugno».

In casa nostra, a chi è andata davvero male?
«I più esposti sono Germania e Italia, in quanto maggiori esportatori europei. Ma non facciamone una tragedia. I dazi incideranno sulla crescita Ue che è molto modesta, ma per una percentuale quasi insignificante. Lo 0,2%, forse lo 0,3%, forse l’1%, ma neanche. Del resto, quale Paese europeo è contrario ad avere energia che non sia di Putin e ad avere armi per la propria sicurezza oppure da mandare in Ucraina? Si risponda a questa domanda. Si vedrà quanto siano deboli le ragioni del dissenso».

Prima dell’accordo, si diceva che saremmo dovuti andare a cercare mercati alternativi: Mercosur, Cina, India… Resta un’idea sostenibile?
«Sono tutti mercati insignificanti rispetto agli Usa. Partiamo da questo: le esportazioni interne all’Ue, cioè tra Paese e Paese, sono mediamente dell’80% per ciascuno. Resta un 20% di export nel resto del mondo. Di questo, la metà va negli Usa».

Così l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico torna a essere forte?
«La vera novità è la cosiddetta economia del bullismo».

Cioè?
«Nella mitologia liberista, tutti commerciano felicemente beni e servizi in maniera tale che nessuno abbia interesse a fare la guerra. Nella realtà, c’è una profonda simmetria tra i Paesi. Gli Usa sono molto più potenti, in termini finanziari e militari, dei Paesi europei presi singolarmente. La Cina ha una potenza abnorme relativamente alle terre rare. Siamo in un nuovo mondo in cui bisogna vedere le cose in chiave negoziale. E non più come libere scelte commerciali».