L’ordine esecutivo è arrivato finalmente. Nella notte tra giovedì e venerdì, Trump ha messo la firma sul decreto con il suo solito pennarellone nero. Atto dovuto, ma vincolante solo in parte. Non è escluso infatti che, prima o poi, il Congresso vorrà esprimersi su una decisione del presidente che avrà delle ricadute anche in ambito interno. D’altra parte, la cerimonia alla Casa Bianca scioglie un primo dubbio. I dazi entreranno in vigore tra il 7 e l’8 agosto, per consentire alle Dogane americane di organizzarne la riscossione. È già qualcosa. L’Europa quindi si attende una tassazione doganale del 15%, come per Giappone e Corea del Sud. Cinque punti percentuali in meno rispetto al Regno Unito. L’accordo terrà?

Il commercio come strumento

La domanda è lecita. Le minacce di Trump indirizzate a Canada e India fanno pensare che ci debba aspettare di tutto. Gli accordi raggiunti sono in balia degli umori del Presidente Usa. Le rispettive scelte di Ottawa e Delhi, di riconoscere lo Stato di Palestina e di continuare ad acquistare idrocarburi dalla Russia, meritano la punizione di Washington. I dazi hanno un valore finanziario-speculativo ed economico, ma anche di relazioni industriali. Tre sfere, queste, che convergono nell’ideologia Maga e che prevede il ricorso al ricatto, alla forza e ad atti di bullismo. Secondo The Atlantic, Trump avrebbe abbandonato il pragmatismo dell’uomo d’affari e quindi userebbe il commercio come “strumento per lanciare grandi dichiarazioni sui suoi valori americani” e consolidare la posizione degli Stati Uniti come superpotenza mondiale. Siamo ben lontani dall’isolazionismo politico che andrebbe di pari passo con il protezionismo commerciale.

Un altro venerdì nero

La finanza ha sempre capito con chi ha a che fare. Proprio perché The Donald è uno dei suoi figli più spregiudicati. Tuttavia, la conoscenza del personaggio non ha risparmiato alle borse un venerdì nero. Ieri, Parigi è stata la piazza che ha ceduto di più (-2,91%), seguita da Francoforte (-2,66%) e poi Milano, andata sotto di 2,55 punti percentuali. Londra si è invece contenuta (-0,7%). La tariffa al 10% piace alla City. In generale si tratta di perdite da segnalare, certo, ma ben lontane dalle montagne russe vissute ad aprile. Nelle 48 ore successive al Liberation day del 2 aprile, il Dow Jones di Wall street aveva bruciato circa 4mila punti. Questo giornale va in stampa con New York che perde l’1,19%. Si potrebbe parlare di un rosso fisiologico, peraltro in coincidenza con il fine settimane e l’approssimarsi della fase estiva, quando anche gli investitori hanno bisogno di liquidità.

15% sul tavolo, tutti devono comportarsi bene

Anche il mondo produttivo sembra restare a guardare. Al di là degli allarmi lanciati dalle filiere, la crescita delle importazioni in Ue dagli Usa, come anche l’export in senso di marcia opposto, suggerisce che gli operatori delle catene di approvvigionamento stiano facendo riserva, in modo che allo scattare delle tariffe – ricordiamoci che fino a pochi giorni fa si temeva fossero al 30% – si abbia materia da distribuire già in magazzino e quindi esente da dazi. L’elemento nuovo di questi giorni è allora geopolitico. Nelle trattative commerciali, Trump mette dentro questioni che riguardano il dipartimento di Stato – Gaza e Ucraina – tali per cui se un governo non si comporta come vogliono gli Usa, questi lo puniscono. Il che porta a chiedersi in cosa l’Europa potrebbe inciampare. Per puro esempio, se uno degli Stati membri Ue, oppure della Nato, non obbedisse all’ordine (di fatto) esecutivo di aumentare le proprie spese per la difesa, Trump come la prederebbe? E con chi soprattutto? Solo con il colpevole, o con tutti noi? La Spagna, si è visto, ha rischiato grosso. Madrid però non è la sola a non voler aumentare i suoi costi militari. Ora, con quel 15% sul tavolo, bisogna che tutti si comportino bene.

Taiwan

In Cina si parla di “Transhipment”, termine oggettivamente brutto, anche difficile da pronunciare, e che dovrebbe essere la fusione fra Trump e punishment (punizione). A Pechino fanno notare che, proprio in vista di un incontro bilaterale tra il presidente Usa e il leader cinese Xi Jinping, l’atteggiamento del primo dovrebbe essere conciliante. O quanto meno coerente. Perché daziare anche Taiwan, infatti? Il primo nemico di Pechino, e quindi fedele alleato di Washington, sarà soggetto a un dazio del 20%. Ha senso?