«L’Europa ha bisogno di un sano realismo. Si guardi al Rapporto Draghi». Questa la diagnosi dell’ambasciatore Sergio Vento, già consigliere diplomatico di quattro presidenti del Consiglio, ambasciatore italiano negli Stati Uniti, in Francia e all’Onu, rispetto al rapporto Usa – Ue.

Ambasciatore come valuta le tensioni commerciali tra le due sponde dell’Atlantico?
«Si tratta di un tema antico che precede di gran lunga l’era Trump. Il problema del twin deficit (ovvero del deficit federale e di quello della bilancia commerciale), infatti, nasce con la pesante spesa pubblica della Great society di Lyndon Johnson e con l’ascesa del dollaro come principale mezzo di pagamento per le transazioni commerciali e valuta mondiale di riserva. Per superare questi squilibri nella bilancia dei pagamenti e favorire maggiore reciprocità in settori chiave, le varie amministrazioni americane dettero vita al G7 nel 1975 e a una serie di round commerciali culminati con la nascita del Wto. Oggi invece Trump, di fronte alla stagnazione di questi tentativi, ha proposto un modello neo-protezionista, con uno stile assertivo e imprevedibile, ricco di insidie».

Che valutazione trae di questa bussola?
«Il presidente statunitense punta ad avviare una reindustrializzazione degli Usa (al momento assai problematica) in settori come l’acciaio e la cantieristica, tramite delle politiche tariffarie orientate ad un forte pressing commerciale. Questa strategia però non si limita alla sola volontà di promuovere il buy american e a un disarmo burocratico-normativo dell’Europa, ma mira a costruire nuove aree di fair trade capaci di rilanciare l’economia americana e imporre un maggiore controllo politico ed economico da parte degli Usa. Una strategia che però potrebbe favorire al contrario proprio un pericoloso aumento dell’inflazione negli Stati Uniti…».

Perchè?
«In quanto non bisogna escludere che proprio il consumatore finale americano sia il più colpito dagli effetti dei dazi rispetto agli agenti europei delle catene del valore. Come anche una reindustrializzazione degli USA rischierebbe di fare aumentare i prezzi a causa dei ben più alti costi di produzione. Ciò, quindi, penalizzerebbe soprattutto il ceto medio e le fasce sociali su cui poggia l’elettorato di Trump. Con il rischio di minare il proprio consenso in vista delle elezioni di Midterm».

Come valuta le spigolosità tra il presidente della Fed Powell e Trump?
«La flessione del dollaro, causata anche dalle politiche presidenziali, rischia di indebolire la sottoscrizione dei treasury bonds da parte degli investitori esteri. Powell sa che se vuole tutelare il ruolo del dollaro e le finanze pubbliche deve mantenere i tassi alti. Mentre Trump vuole abbassarli per favorire investimenti ed esportazioni. Anche se, secondo indiscrezioni, sarebbe stato raggiunto un compromesso tra il segretario al Tesoro Bennet e Powell, basato sulla rinuncia ad una traumatica sostituzione di quest’ultimo in cambio di un leggero taglio dei tassi già in autunno».

Come valuta l’accordo scozzese degli scorsi giorni?
«Si tratta di un esito profondamente amaro, in quanto imposto ed unilaterale, che ha mostrato la debolezza dell’Europa nonostante siano ampie le eccezioni e i gli spazi di manovra. Allo stesso tempo però questo accordo, che a me sembra più un memorandum of understanding, si presenta molto aleatorio e non privo di ambiguità».

Ovvero?
«Ad esempio, non è chiaro con quali poteri e con quale investitura la Commissione si sia impegnata in due settori che esulano dalle proprie competenze quali gli acquisti di energia e gli investimenti privati negli Usa. Né si capisce bene quali contromisure abbia cercato di costruire in questi mesi l’Europa per controbilanciare i dazi. Come, ad esempio, l’imposizione fiscale sui profitti dei giganti tecnologici statunitensi in Europa. Anche nel rapporto con la Cina, il fallimento dell’incontro di Pechino avrebbe potuto essere evitato con una minore enfasi sugli aspetti politici (quali i legami tra Cina e Russia) e un maggiore pragmatismo economico. Sarebbe raccomandabile, quindi, maggiore coesione e realismo come prescritto già nel Rapporto Draghi».

Crede che con i suoi malumori la Francia di Macron e Bayrou possa rovesciare l’accordo?
«Nonostante non escluda delle prese di posizioni francesi, quando l’”accordo scozzese” verrà portato in sede europea, non credo che Parigi possa rovesciare veramente il tavolo della trattativa. Si tratta quindi di un confuso protagonismo transalpino che mira sia ad attenuare i propri disagi di politica interna, che a cercare spazi per contenere il dinamismo di Starmer e l’assertività di Merz sul piano militare e internazionale».

Quale carta hanno ora gli europei?
«Credo che gli Stati europei dovranno concretamente monitorare la redistribuzione dei costi dei dazi sui numerosi anelli delle catene del valore. Questo esercizio potrebbe, infatti, favorire un più equo assorbimento degli oneri doganali affinché essi non ricadano quasi esclusivamente sulle aziende esportatrici con un impatto negativo sull’occupazione».

Francesco Subiaco

Autore