De Mita rovinò l’Italia, ecco perché

Ciriaco De Mita, secondo me, è stato l’uomo che ha portato al disastro la prima repubblica. Cioè la democrazia italiana. Ho letto ieri moltissimi articoli sui giornali italiani, compreso il nostro, anche molto belli, acuti. Secondo me, però, eccessivamente generosi verso l’ex segretario democristiano e sbagliati nel giudizio di fondo. Capisco che il mio è un giudizio molto minoritario e forse persino un po’ maleducato. Ma sono molto convinto di quel che scrivo.

Io credo che De Mita avesse alcune delle doti del grande politico: una notevole abilità tattica, una buona strategia delle alleanze, la capacità di conquistare, e dominare, e sottomettere i giornalisti e i mass- media. Però gli mancava la visione. De Mita spesso incantava con la sua retorica un po’ fumosa, ma non era capace di produrre idee politiche. Era il suo punto debole. Stiamo parlando di un’epoca nella quale le idee erano fondamentali in politica. L’epoca di Moro e Fanfani, e poi di Craxi e Berlinguer. Moro era un conservatore, un uomo di centro. Anzi, era il gigante del centro politico. Voleva consolidare la struttura della democrazia italiana e fare in modo che questa potesse accompagnare lo sviluppo economico, riducendo al minimo le tensioni sociali. Tutte le sue scelte politiche erano ispirate a questo disegno. Conciliare e conservare.

Fanfani invece era un riformista, e tendenzialmente, sul piano sociale, uno statista di sinistra. Diede impulso al welfare, realizzò il piano casa, riformò la scuola media. Craxi e Berlinguer erano due politici con una impronta fortissima e simile: mettevano la strategia al di sopra della tattiche. Il fine davanti a tutto. Cioè i programmi, la visione, erano per loro la sostanza della politica, e la manovra era solo il mezzo. Craxi fu anche un ottimo manovratore, e anche Berlinguer. Ma il loro carisma non era fondato sulle tattiche: si reggeva sulle idee e su un progetto di società. Craxi e Berlinguer avevano due progetti di società molto diversi. Quasi opposti. Craxi voleva liberalizzare il paese, sul piano dell’economia, ma anche della cultura, del senso comune, e poi sul piano politico, semplificando la macchina decisionale, introducendo il presidenzialismo, deburocratizzando il parlamento. Ve lo ricordate? Dicevano che fosse un decisionista. Il suo decisionismo era una subordinata del liberalismo sociale.

Berlinguer non era un illiberale. Però non considerava la libertà il principio essenziale attorno al quale costruire una strategia. Da vecchio comunista togliattiano, e anche un po’ da para-cattolico, metteva l’equità e l’uguaglianza al centro di tutto. Non la libertà. Sanità uguale per tutti, diritto alla casa, livellamento salariale, riduzione delle grandi ricchezze. La stagione ‘78-79 (la seconda grande stagione riformista del dopoguerra, dopo quella di Fanfani ) è opera sua. Se Berlinguer e Craxi non trovarono mai una intesa, se la sinistra restò divisa, la cosa non dipese da “incompatibilità caratteriale”, o eccesso di competitività. No. Dipese dalla lontananza delle idee delle due sinistre. Berlinguer liquidò Lenin, ma non Marx. Craxi liquidò Marx e scelse Proudhon. Allora la politica era questo, le questioni relative a Giuarrusso e Petrucelli non si erano ancora affacciate.

De Mita si è sempre tenuto lontano da queste “beghe intellettuali”. A lui interessava quella politica che Rino Formica chiamava “sangue e merda”. La battaglia di campo, la ricerca del consenso, il governo delle correnti, che erano l’anima della Dc. Anche Moro era abile nel governo delle correnti, ma era diverso l’approccio. Moro si misurava con le parti “alte” delle correnti. Perché nella Dc le correnti erano due cose: truppe (assistenzialismo, clientelismo) e grandi idee. Basso e alto. Ricordo alcuni convegni a Saint Vincent della corrente di Donat Cattin che valevano dieci lezioni universitarie di dottrine politiche. Soprattutto la sinistra Dc, erede di Dossetti, di La Pira, di Marcora, era fortissima sul piano intellettuale. Lo era anche la sinistra di Base (Marcora, appunto) che aveva intellettuali raffinatissimi al suo interno, come Galloni e se non ricordo male anche Martinazzoli, Granelli e Belci.

De Mita era più interessato alla parte un po’ grezza del correntismo. L’organizzazione. Quella che permetteva poi di vincere i congressi, regolando l’afflusso dei voti e degli appalusi. Aveva un colonnello fantastico, che ancora è alla ribalta, ed era bravissimo. Clemente Mastella. Credo che fu Gianpaolo Pansa, ad un congresso Dc, a scrivere che il congresso lo avevano vinto le “truppe mastellate”... Mastella era anche l’uomo che organizzò la “testuggine“ dei giornali intorno a De Mita. Prima conquistò la Rai (quando Mediaset ancora non esisteva e la Rai aveva il monopolio) poi i grandi giornali. De Mita, direttamente o attraverso Mastella – uomo intelligentissimo e modernissimo – controllava il Corriere, Repubblica, l’Unità, la Stampa, Paese Sera, il Giorno, il Messaggero. C’era una corte di giornalisti che pendeva dalle sue labbra. Anche penne celebri allora e celebri ancora adesso. Ne cito qualcuno, alla rinfusa, per non essere vago.

C’erano Ezio Mauro, Massimo Franco, Antonio Caprarica, Candiano Falaschi, Giorgio Rossi, Antonio Padellaro e tantissimi altri. Quelli fuori dal coro erano pochissimi, e generalmente finivano per appoggiarsi a Craxi. Penso a Paolo Franchi, a Walter Tobagi e un paio d’altri. Però Craxi non distribuiva potere, De Mita sì. In quel periodo ero un giovane giornalista politico dell’Unità. Abbastanza emarginato. Non sopportavo la corte di De Mita (forse l’avete capito anche leggendo queste righe…) e avevo notato lo squilibrio, sul piano dello scambio di potere, tra craxismo e demitismo. Nel craxismo era bassissimo. Poi mi dissero che Craxi era corrotto. Per come lo conoscevo tendo a escluderlo, Penso che in quel mondo politico, nel quale la corruzione non era un difetto – faceva parte del sistema – Craxi fosse uno dei pochi incorruttibili. Non dico sul piano dei soldi, quello non lo so.

Il sistema delle tangenti funzionava per tutti con regole ferree. Era considerato più che tollerabile da tutti. Dico sul piano della politica. Per me Craxi non si è mai venduto: nel senso che le sue scelte politiche erano assolutamente autonome, non erano condizionate da scambi di favori o di potere, o da manovre, o da compromessi. Craxi, dopo la morte di Berlinguer e di Moro, era restato l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Nella Dc non era così: lo scambio tra scelte politiche e vantaggi vari era piuttosto frequente. Lo scontro fra Craxi e De Mita fu tutto qui. La possenza del sistema di potere democristiano contro il carisma e le idee e le doti di statista di Craxi. Lo sapete, negli anni ottanta vinse Craxi, spostò l’Italia, in parte controriformando le riforme berlingueriane di fine anni 70, in parte innovando, “europeizzando” e forzando la mano sull’indipendenza del paese.

La Dc fu per la prima volta messa in secondo piano. Grande potere, grande sottogoverno, ma fuori dalle scelte importanti. Politica estera, politica economica, politica sociale: decideva il Psi, la Dc o approvava o faceva un po’ di fronda strizzando l’occhiolino al Pci. Quando dalla politica italiana sono scomparsi prima Berlinguer e poi Craxi è scomparsa anche la grande politica. Non si sono sentite più le idee. Nessuno capace di immaginare il futuro, di pensare. Restò il potere, la ricerca del consenso, i sondaggi, le tattiche, i congressi di manovra. Era il demitismo che si allargava, si prendeva la vendetta, ma non dopo aver vinto una battaglia ,semplicemente per la legge dei “vuoti”. Lo dico in modo un po’ brusco, ma io credo che il demitismo sia stata la malattia che ha portato la prima repubblica a implodere, a consumarsi, e a finire preda di un pugno di magistrati milanesi. Quattro o cinque, svegli e con un po’ di manette a disposizione.

L’Italia, alla vigilia del ‘92, era diventata la quarta potenza mondiale. Era un paese molto più giusto e molto più democratico del paese che è oggi. Aveva sconfitto il terrorismo e dato le legnate di Falcone alla mafia. Non restò nulla. Iniziò il declino. Colpa di De Mita? Ma no, per carità, non dico questo. Certo De Mita non portò neppure un granello di sabbia a difesa della grandiosa stagione della democrazia politica. La sua eredità politica, siamo sinceri, non è vastissima.