«Un uomo su una sedia a rotelle spinto dai suoi figli da un ristorante affollato in una strada senza nessuno in giro. Un uomo seduto su una lana sbrindellata con una coperta navajo sulle ginocchia». Così Sam Shepard, attore, regista e scrittore fra i più ispirati del Novecento, descrisse se stesso pochi giorni prima di morire, tre anni fa, in un diario uscito postumo e appena tradotto in italiano da Massimo Bocchiola: Spiare la prima persona (La Nave di Teseo, pp. 101, 16 euro).
Due parole innanzitutto sul titolo di quest’opera estrema, frutto di appunti scritti a mano e poi dettati a voce al registratore, materiali riuniti e messi insieme da amici e amiche, fra cui Patti Smith, ex compagna dell’autore, rimasta fedele anche dopo la separazione: nel testo si alternano senza soluzione di continuità prima e seconda persona, come se negli ultimi giorni della sua vita il protagonista cominciasse lentamente a staccarsi da se stesso, guardandosi da fuori. A ben pensare è il meccanismo tipico dell’attore quando deve immedesimarsi nel personaggio da recitare. Nel caso di Sam Shepard si tratta di un vecchio gesto interiore: l’andirivieni caratteristico fra ciò che siamo e ciò che vorremmo o avremmo voluto essere, dal momento che ogni suo film o racconto metteva in scena proprio i tormenti di un desiderio insoddisfatto.
Fra le tante citazioni cinematografiche alle quali potremmo attingere per illustrare il concetto, ne ricordiamo soltanto una: I giorni del cielo di Terrence Malick, 1978, dove Shepard recitava la parte di un giovane proprietario minato da un male incurabile, il quale vedeva il mondo quasi da una distanza incolmabile, come se ne avesse nostalgia. Quel magnifico film torna come un fantasma in questo testamento finale, insieme ai miti folgoranti che hanno segnato l’esistenza dell’uomo malato di Sla sulla sedia a dondolo col “berretto da baseball, i jeans sporchi, la vecchia canottiera”. E cioè i deserti americani, l’Arizona, lo Utah, i cavalli, i marines, gli aeroplani, senza dimenticare il tempo anteriore, meravigliosamente decrepito ma ancora vivo, incarnato da quelle indimenticabili magnifiche zie sorridenti e pettegole, a bordo di certe vecchie Chrysler azzurrognole, all’epoca in cui arrivavano puntualmente in visita con dolci e giocattoli da regalare ai nipotini.
Ciascuno di noi conserva nel proprio cuore una stagione preziosa, irripetibile, alla maniera di un trofeo. Per Shepard questa età dell’oro si colloca alla metà degli anni Settanta: «Grossomodo. Cosa è successo? Non molto chiaro. La Cambogia. L’offensiva del Tet. Elicotteri che si schiantano. Watergate. Muhammad Alì. Vola come una farfalla. Pungi come un’ape». L’epoca in cui l’autore era bello, famoso, atletico, carismatico, affascinante, conteso dai registi e dalle donne di mezzo mondo. Già allora abitava in un ranch non distante dall’autostrada, è stato anche insieme a Jessica Lange, impegnato a coltivare nei suoi rodei un’archeologia del West: «Mangiavamo panini dietro una finestra panoramica e credo andassimo a nuotare a Indian Springs, nella calde acque termali di lassù, circondati da palme e serpenti».
Colpisce in quest’opera di grande forza espressiva, forse davvero il risultato maggiore nella pur notevole produzione letteraria di Shepard, la rievocazione del tempo trascorso: «Il passato non arriva tutto intero. Arriva sempre a pezzi». Noi lo percepiamo mentre siamo ancora in corsa nella quotidianità indifferenziata, incapaci di ricavarne il succo essenziale: «L’esperienza del presente è quella dell’anonimato. Il modo in cui il sole batte sul marciapiede».
Una vera dichiarazione di poetica. Dal momento che, a differenza di quanto pensava Proust, non è possibile recuperare nessun tesoro, dobbiamo accontentarci delle pietre grezze, le quali poi a lungo andare fanno presto a rivelarsi come la parte più importante rispetto a tutto il resto: «Sembra ieri che giocavamo a bocce. Io e te. Tu a quei tempi eri un uomo. Le bocce sono un gioco da vecchi ma tu eri giovane».
Lo scrittore sta parlando ai figli. Lo fa rinunciando ai sermoni: «Non sto cercando di dimostrarvi niente. Non sto cercando di dimostravi che ero il padre che credevate fossi quando eravate bambini». In realtà, mentre idealmente li interpella, mostrandosi nella sua fragilità, si rivolge anche a se stesso, quasi incredulo: «Ho fatto degli errori ma non ho idea di quali siano stati».
Arriviamo così alla struttura portante del libro, metaforica del senso che siamo chiamati ad attribuire alla vita: come mettere insieme i pezzi? Usando quale criterio? «Sappiamo solo che c’è reminescenza, c’è qualche misteriosa connessione. A volte». In quel preciso istante Sam Shepard s’inventa un’immagine che in fondo rappresenta tutto il suo credo: «Metti bandiere sui pali per guidare la memoria… Un po’ come gli spagnoli nel Cinquecento, che picchiettarono la piana dal confine del New Mexico su fino al nord del Texas per indicare dov’erano stati e dove stavano andando. Perché nessuno lo sapeva.
Piccole bandiere rosse sui pali. Era la terra dei Comanche, che sapevano sempre esattamente dov’erano, ma a tutti gli altri tutto sembrava perduto». Che è anche un bel modo per definire la solitudine inconsolabile dell’uomo occidentale. La nostra stessa patetica e commovente sicurezza, ci sta dicendo Sam Shepard, mentre seduto in veranda osserva i cactus e ascolta il cinguettio degli uccelli, accompagnandoci nello spazio sacro verso il vuoto assoluto.
