Dino Petralia tra i detenuti, il capo del Dap dà una lezione ai Pm

Pur se annunciata è apparsa sorprendente la partecipazione del Direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Dino Petralia all’ultimo congresso di Nessuno tocchi Caino. Sorprendente perché l’avvenimento avveniva nel carcere di Opera con i suoi detenuti che vivono in regime di alta sicurezza e con la partecipazione di una parte di loro e il collegamento con un gruppo di ristretti a Parma.

Nulla di speciale, per chi è avvezzo a frequentare il mondo dei radicali e dei diritti. Tutto nuovo per un magistrato di ottimo curriculum, ma i cui galloni più prestigiosi consistono nell’esser stato fino a ieri un pm “antimafia”. Il che significa che per molti dei detenuti la cui vita oggi dipende da lui e dalla sua capacità di lasciarsi contaminare da questo mondo riformatore, può esser stato lui stesso a chiedere carcere e carcere, ergastoli ed ergastoli. Una bella contraddizione. Interessante, anche. Dino Petralia compare sullo schermo e spande la propria voce, ben sapendo quali orecchie lo ascolteranno. Non soltanto quelle dei suoi nuovi interlocutori, la caparbietà di Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, ma soprattutto di Rita Bernardini, che lui chiama semplicemente “Rita”. Si mostra entusiasta e fiero per la novità del dialogo continuato e intenso con persone che le prigioni vorrebbero proprio fossero cancellate dalla faccia della terra.

E questo è il secondo aspetto sorprendente: il fatto che lui, il dottor Dino Petralia, se pur collegato da lontano, sia proprio lì, presente in video e in voce, quasi con il proprio corpo in mezzo ai “suoi” detenuti, a spiegare che cosa sta facendo e che cosa farà per loro. Era dai tempi di Santi Consolo che questo miracolo non accadeva. E c’è voluto tutto quel che è capitato negli ultimi due anni per arrivare a questo risultato, perché ci si possa ritrovare davanti a una persona quanto meno curiosa di capire che cosa succede dentro quelle mura in cui pure lui stesso ha contribuito a sbattere innocenti e colpevoli e poi magari anche a suggerire di stringere bene le manette e impedire qualunque contatto con il mondo, magari per il resto della vita e oltre.

Non è stato un bel momento, quello in cui Dino Petralia e il suo vice Francesco Tartaglia sono approdati alla dirigenza del Dap. Il ministro della Giustizia si chiamava Bonafede e il capo delle carceri Francesco Basentini era stato costretto alle dimissioni dopo che era scoppiato un inferno con pochi precedenti per la diffusione di un virus che non conosceva farmaci né vaccini. Ma anche dopo che gli era stato rinfacciato, domenica dopo domenica, nelle trasmissione di Massimo Giletti, la colpa primordiale di esser stato preferito dal ministro a un totem dell’antimafia come Nino Di Matteo. Ma c’era stata anche una gestione ritenuta debole delle rivolte che erano scoppiate in alcuni istituti di pena. L’unica verità di quei primi mesi del 2020 è che erano saltati i nervi al mondo politico-mediatico-giudiziario dei Torquemada, in seguito a una circolare di semplice buon senso che suggeriva ai direttori delle carceri di segnalare i nominativi di detenuti anziani o malati a rischio per l’epidemia del coronavirus covid-19.

Erano stati avviati procedimenti di detenzione domiciliare o di differimento pena, avendo attenzione al primo principio della nostra Costituzione, la salute. Questa era stata la gestione Basentini delle carceri. Eppure, qualcuno ricorda titoli di giornale come quello di Repubblica “I 376 boss scarcerati, ecco la lista riservata che allarma le procure”? Era un clamoroso falso, insieme agli allarmi del Fatto quotidiano e del nuovo connubio in salsa manettara tra Pd e Cinque Stelle. Sono storie di due anni fa, il decreto ragionevole fu superato da uno di segno opposto che fece riaprire le celle, nel nome dell’antimafia militante, anche a quei quattro o cinque del regime 41 bis (altro che 376!) seriamente malati. Tutti furono ritrovati nelle proprie case e non risultarono i temuti contatti con cosche sul territorio. Ma il nuovo decreto, che tra l’altro imponeva, per ogni singolo caso, la consultazione dei vertici antimafia e dei pubblici ministeri che avevano avviato le inchieste sul territorio, allontanava le decisioni da coloro che conoscevano veramente ogni caso e ogni persona, cioè i giudici di sorveglianza. Un argomento ancora in discussione in questi giorni in Parlamento con la proposta di centralizzare a Roma gli uffici di sorveglianza.

Trascurando la necessità che a decidere su ogni provvedimento che riguarda i benefici del detenuto siano organi e persone presenti sul luogo di detenzione. Ne ha parlato al congresso di Nessuno tocchi Caino la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. Chissà se il dottor Petralia ha avuto modo di sentirla, tramite Radio radicale. Perché i suoi interventi, al contrario di quel che spesso capita con i magistrati, non hanno mai l’impronta burocratica. Conoscere da vicino il detenuto vuol dire anche non ancorare la sua personalità semplicemente al reato, ribaltando, come dice Sergio D’Elia, la politica del tipo d’autore del momento dell’arresto. Ma significa soprattutto attenzione al percorso di cambiamento della persona, che non è mai quella fotografata quel giorno, quello della commissione del reato, o quella del momento in cui gli furono messe le manette ai polsi. Se dobbiamo considerare le persone “perpetuamente pericolose”, dice Giovanna Di Rosa, allora vuol dire che il carcere ha fallito nella sua funzione prevista dalla Costituzione.

Dino Petralia non si è ancora affacciato a questo tipo di ragionamenti. Ma c’è forse da essere ottimisti, dopo aver sentito dalla sua bocca “ho messo una quota di passione in questo lavoro”. In un’intervista a Repubblica ha raccontato dei suoi giri nelle carceri, due visite a settimana, e non è poco. Anche in questo caso mostra stupore. Il che ci conferma il fatto che i magistrati del carcere non conoscono proprio niente. E che, anche quando non dicono di buttare la chiave, è come se lo gridassero ogni volta. Ogni pm che chiede e ogni gip che decide la custodia cautelare, e ogni tribunale o corte che sentenzia, qualcuno di loro sa davvero che cosa sta facendo? «Voglio citare esperienze che mi hanno lasciato il segno. Talvolta, quando giro le sezioni degli istituti, mi sento chiamare per nome e cognome, e mi rendo conto di come il rapporto di distacco vissuto da magistrato si sia trasformato in qualcosa di più umano». Appunto. Un po’ «come quando scopro che in quei pochi metri talvolta manca l’acqua calda, o non funzionano gli scarichi». Questa si chiama vita da carcerato, dove le piccole cose sono grandi problemi e quelli grandi, come i reati “ostativi” che ti impediscono di vedere un futuro, sono giganti.

Al congresso il direttore Basentini ha parlato a lungo dell’importanza del lavoro. Ha ragione, chi in carcere o all’esterno può fare corsi professionali o avviarsi a un’attività sta meglio nell’immediato e nel futuro. Senza sottovalutare l’inversione della percentuale (dall’80 al 20%) della recidiva. Ma è solo un aspetto del problema. Ed è importante quel che disse, come lui racconta, suo suocero penalista il giorno in cui lui aveva vinto il concorso: «Per ogni toga sarebbe importante vivere per qualche settimana la vita del carcere». Ma da detenuto, magari. E poi riflettere sul titolo che Nessuno tocchi Caino ha dato al congresso: piuttosto che a un diritto penale migliore, pensiamo a qualcosa di meglio del diritto penale. Perché la detenzione in carcere è solo la coda e la conseguenza di qualcosa che è già successo prima. E che è sofferenza.