Ecco la ricetta per superare il populismo: una politica civile, civica e umanista

Dalle pagine del Corriere della Sera Angelo Panebianco ha osservato: lo Stato di diritto “si fonda su un equilibrio fra l’esigenza collettiva della protezione sociale e l’esigenza della tutela delle libertà individuali. È da questo principio che derivano la limitazione e il controllo del potere pubblico”. Principi estranei alla sottocultura dell’odio e dell’invidia sociale che ha alimentato i movimenti populisti da cui è nato il mito della democrazia diretta. Una storia cominciata trent’anni fa (il golpe bianco di mani pulite) con l’illusione di fondare una nuova Repubblica ma che di fatto, con una legge elettorale maggioritaria, dette vita ad un sistema delle coalizioni in cui metà dell’elettorato non si riconosce e diserta le urne.

Ma come è potuto accadere: lo start furono le monetine contro Craxi, la prima messa in scena dell’antipolitica. E da lì la sarabanda della secessione e di Roma ladrona, il berlusconismo per un bipartitismo fasullo, l’antiberlusconismo al posto del riformismo. La Rete ha messo in discussione il primato del mediatore culturale minando alla radice il valore delle élite, intellettuali e politiche. Così l’elettore, convinto di essere protagonista del suo destino, sceglie l’ultima offerta del supermercato dei partiti, convinto che sia conveniente perché risponde ai suoi interessi del momento. In definitiva si è alimentata l’illusione che il potere di fare il mercato si sia trasferito da chi produce agli influencer così come si è diffusa l’illusione che, se uno vale uno, possiamo fare a meno della democrazia rappresentativa.

Quale strada intraprendere per uscire da questa fase? Se non è una buona idea tornare a come eravamo, non è altrettanto accettabile la condizione attuale. Dalla transizione dobbiamo uscire nella prospettiva di una diversa configurazione della società e del potere politico e istituzionale. Anzitutto si devono liberare gli individui dalla paura: di non essere curati se malati, di non avere fonti di sostentamento per il venir meno delle possibilità di lavoro, di non avere il supporto di servizi sociali pubblici, di non essere protetti da possibili violenze, di non avere garanzia di sicurezza pubblica e privata. Ciò presuppone la spinta ad una nuova socialità che tenga assieme la libertà con l’uguaglianza e la fraternità, premessa necessaria affinché ciascuno senta la presenza dell’altro e l’appartenenza ad una comunità solidale di cui voglia contribuire a stabilire le regole. È necessario partire dalla funzione generativa del welfare, riprendendo l’idea che un investimento in servizi sociali e per la cura del bene comune (in senso lato) genera, se regolato da meccanismi trasparenti, un mercato e un valore.

Dopo la prima vera crisi globale del corona virus, lo scoppio di una guerra calda a poche ore di volo dall’Italia, la crisi energetica e la crisi climatica, l’Unione Europea e l’Italia devono convergere su un comune obiettivo: traghettare la democrazia e ripensare le sue regole, i suoi valori e principi, in primis la libertà. Rifuggire le scorciatoie populiste, combattere il pensiero autoritario, uscire dal presentismo dominante e immaginare una nuova Polis, progettare la democrazia futura, dando vita ad un Partito politico, assemblea di militanti, capace di conquistare il Centro. Non un’operazione nostalgia, ma la memoria può restituirci la cultura del pluralismo che non ha bisogno di avventurose leadership personali, ma necessita di un pensiero collettivo che si proponga di garantire la mediazione fra forze e identità diverse e di mettere il sistema democratico al riparo dai pericoli della faziosità dell’attuale bipolarismo dando piena attuazione all’art. 49 della Costituzione.

La transizione digitale è il contesto in cui elaborare quel pensiero politico necessario ad originare il nuovo Partito partendo dalla consapevolezza del passaggio storico che stiamo attraversando. Abbiamo bisogno di parole nuove per definire la realtà nuova in cui viviamo, comprendere le tendenze “strutturali” dei cambiamenti per non esserne travolti e poterli indirizzare. Alcuni mesi fa, in occasione di un seminario sulla transizione organizzato dalla editrice Heraion (da cui il libro “Il tempo di Kairos”) è emerso che quello che serve è un progetto di un altro mondo che è possibile organizzare partendo dai punti alti della conoscenza per riformare i nostri modelli economici, ripensando le nostre strutture di welfare, trovando soluzioni nuove alla vecchia forma di produzione del valore.
Per fronteggiare le forze regressive che investono la nostra società Edgar Morin, indica “la speranza coraggiosa della lotta iniziale a condizioni che si restaurino una concezione, una visione del mondo, un sapere articolato, un’etica, una politica”. In definitiva un Partito che sappia “animare non soltanto una resistenza preliminare contro le gigantesche forze della barbarie che si scatenano, ma anche un progetto di salute terrestre. Coloro che raccoglieranno la sfida verranno da orizzonti diversi, poco importa sotto quale etichetta. Saranno i restauratori della speranza”.

Una formazione politica che nasca fuori dai circuiti di fedeltà personale, che nasca dalla esperienza di quanti hanno governato il proprio territorio, come quella Federazione delle associazioni civiche fondata lo scorso 17 giugno a Roma, capace di trasferire, prima in una coalizione di forze riformiste e poi in un nuovo soggetto politico, problemi che sono comuni: una politica dell’energia, una politica della solidarietà, una politica di riforma degli enti di governo, una politica dell’istruzione, della produzione, del cibo e della salute. E alla fine una politica che riporti umanità e convivialità nelle nostre esistenze restituendoci autonomia e responsabilità, una politica di riconoscimento della piena umanità dell’altro, una politica civile, civica e umanista.