Ed io, avrò cura di te

Chi non ha a cuore il destino degli artisti? Si sa che il mondo dell’arte è già perennemente in crisi, figurarsi in questi tempi di stasi pandemica. Proposte in vista? “È necessario un grandioso progetto di arte pubblica da svariati milioni di sterline che miri a sostenere il mondo dell’arte e gli artisti durante l’epidemia di coronavirus” annuncia coram populo Hans-Ulrich Obrist, direttore delle Serpentine Galleries di Londra. Per chi ne masticasse poco di arte contemporanea, parliamo di uno dei curatori d’arte più potenti del mondo.Secondo Obrist il progetto dovrebbe ispirarsi al PWAP (Public Works of Art Project), istituito nell’ambito del New Deal rooseveltiano per attenuare le conseguenze della crisi del ‘29. In effetti, il PWAP coinvolse circa 3.700 artisti, producendo oltre 15.000 opere d’arte e lanciò le carriere di Pollock e Rothko.
Mi sorprende poco l’entusiasmo che questo appello ha sollevato in Italia, sia nelle riviste di settore che nella stampa più generalista. Del resto Roosevelt, un po’ come Kennedy, è una di quei santini metastorici evocati a garanzia dell’intrinseca bontà di un’idea. Se poi l’idea in questione fa balenare la possibilità di un bel po’ di fondi pubblici sparsi a pioggia, l’interesse generale è presto sollecitato.
Peccato che l’attuale mondo dell’arte contemporanea non sia rimasto ai tempi di Roosevelt. Il mercato globale dell’arte raggiunge un valore complessivo di quasi 70 miliardi di dollari. Buona parte di questi valori economici sono generati da collezionisti privati o fondi di investimento, di concerto con un pugno di curatori e artisti in grado di influenzare le quotazioni. Il ruolo delle istituzioni pubbliche nel mercato è veramente residuale.
Ma c’è un ulteriore problema nel voler aiutare gli artisti: come li riconosciamo? Nel XX Secolo il lavoro dell’artista era produrre manufatti pregiati: quadri, statue, dotati di una specifica “aura” di unicità, come ci insegna Benjamin. A Roma, 30 o 40 anni fa, c’erano un centinaio di queste figure professionali che si riconoscevano l’un l’altro e producevano per una rete di galleristi.
L’evoluzione economica e sociale ha profondamente mutato questi equilibri.
Nel 2019 un progetto come il MACRO Asilo di Giorgio de Finis ha invitato a partecipare alle attività del museo romano chiunque si autoproclamasse artista. Il risultato è stato rivelare che il bacino degli artisti a Roma è gigantesco: nell’ordine delle decine di migliaia di persone. Chi si proclama artista spesso non è affatto riconosciuto, se non da suoi pari, e ancor più spesso fa altri lavori per vivere: l’artigiano, il designer, lo scenografo, l’insegnante, il tatuatore. Il paradosso è che gli artisti viventi sono legioni ma quelli che possono vivere della loro arte sono pochissimi.
E l’opera d’arte come si riconosce? Una donna che pulisce ossa insanguinate o un cumulo di mosche morte sono opere importantissime, anche se difficilmente verrebbero esposte in un ufficio pubblico.
Obrist ovviamente queste cose le sa benissimo, come sa che sul mercato dell’arte incombe una grave crisi. Se i grandi collezionisti cominciano a disfarsi dei loro pezzi di arte contemporanea a favore di investimenti meno volatili il pericolo per i super-curatori è di essere messi da parte.
Un forte intervento pubblico in campo artistico avrebbe comunque bisogno della loro autorevolezza, anche solo per decidere che cos’è arte e cosa non lo è. In un momento di forte confusione sul concetto di autorialità rimane solo il curatore a garantire l’opera dal lato teorico e da quello della sua unicità.
Così, invece di favorire i nuovi Rothko e Pollock, probabilmente il programma tirerebbe fuori da guai Obrist e i suoi colleghi, ribadendone comunque la centralità nel decidere chi sia un artista degno di nota (e quindi di banconota).
E in Italia? Qui non abbiamo neanche qualcosa di paragonabile all’Art Council of Great Britain, fra parentesi un’idea di Keynes: un ente unico che provveda a promuovere arte e artisti nazionali secondo precise linee guida. Tutto si divide fra competenze ministeriali, locali e localissime per confondersi in mille tristi rivoli burocratici.
L’entusiasmo per le dichiarazioni di Obrist sta già sfociando nella richiesta a gran voce di “tavoli” per affrontare la crisi dell’arte. Tavoli dove si accomoderanno le task-force del notabilato artistico e che avranno come risultato primario quello di risolvere la loro crisi personale di autorevolezza.
Il mondo dell’arte supererà la crisi. Chi sa gli artisti come se la caveranno.

Fabio Benincasa – Duquesne University