Ce la faranno i democrats a tirare su il carrello e decollare prima che la finestra del calendario si richiuda? Per ora a quella finestra hanno messo una spranga di traverso: l’impeachment del presidente Trump accusato di aver premuto sul suo collega ucraino per costringerlo a sputare prove da usare contro il suo primo avversario elettorale, Joseph Biden, ex vice di Obama e padre di un figlio molto attivo sul fronte degli affari ucraini. Sappiamo che per questa storia, che Trump a gran voce nega, sostenuto dal Wall Street Journal e da Fox News, mentre la Cnn e il New York Times lo tartassano, sta causando meno guai a Trump che allo stesso Biden. Il cittadino medio, intervistato dalle agenzie di sondaggio, afferma di non avere alcun interesse in quel che ha fatto o non fatto Trump, mentre vuole garanzie economiche sul futuro immediato che lascia temere una stagnazione e una potenziale recessione, frutto dell’eccesso di ricchezza, occupazione e stabilità. Sembra incredibile a noi italiani, ma un eccesso di buona salute in economia, può essere una malattia letale. Mai come ora gli americani sono stati occupati – indice di disoccupazione al 3,5 e in caduta – e hanno visto i loro salari e assicurazioni pensionistiche crescere perché le aziende letteralmente se li rubano a colpi di aumenti salariali e benefit e bonus di ogni genere. Biden da questa storia ucraina esce comunque danneggiato: sarà pure la vittima di una bravata di Trump, resta il fatto che nessuno ha accusato Trump di aver fabbricato o chiesto di fabbricare prove contro di lui.
Al massimo, di dire la verità per usarla in campagna elettorale. Ciononostante Biden guida la classifica mentre Michael Bloomberg, ex sindaco di New York, magnate industriale e televisivo, stramiliardario da far impallidire lo stesso presidente, si è gettato nell’agone con una fiche d’ingresso al tavolo da gioco di cento milioni di dollari sa spendere in pubblicità, il resto appena serve. A che punto è la sua corsa? Ancora molto indietro perché sta scaldando i motori, ma il suo assalto all’elettorato comincerà non appena chiuso il capitolo festivo e lì si vedrà la vera tenuta del presidente miliardario. Ieri sono andato sulla Fifth Avenue a visitare la Trump Tower, il suo ex quartier generale dove secondo i democratici riceveva i russi portatori di doni, ed è ancora uno spettacolo straordinario. Quando venni ad abitare a New York più d’un quarto di secolo fa, nell’androne della Trump Tower, troneggiava una gigantesca statua policroma di zio Paperone, l’Uncle Scrooge dei Racconti di Natale di Dickens, con occhialini e bastone. Oggi la Torre è anche un museo della campagna elettorale de presidente in cui si sprecano, fra cascate e scale mobili, i mugs del caffè americano e tutta la cianfrusaglia. Ma i repubblicani sono fermi a Trump: la manovra di Nancy Pelosi attaccandolo con l’impeachment non ha mai avuto davvero l’obiettivo di farlo dimettere ma soltanto di danneggiarlo, a condizione che una consistente pattuglia di senatori repubblicani che lo odiano, avessero preso la palla al balzo per arrostirlo nelle procedure e consegnarlo all’elettorato formalmente assolto (questo è certo) ma sbertucciato e malconcio. Per ora, non vi vedono segni in questo senso.
In campo democratico chi sta andando a rotoli è Elizabeth Warren, intrepida senatrice del Massachusetts che ha scelto la linea del disprezzo contro tutti i repubblicani che definisce “smidollati incapaci di affrontare la corruzione del loro capo Trump e di sbatterlo fuori dal loro storico partito”. Peccato che la Warren abbia commesso un errore capitale che le ha messo il piombo nelle ali e la costringe a svolazzare raso terra senza decollare mai: è successo quando un test del Dna ha stabilito che nel suo sangue inglesissimo e bianchissimo non scorre neppure una goccia di sangue dei nativi pellerossa, come lei aveva sostenuto atteggiandosi a grande sostenitrice della causa degli indiani. Ha fatto una tale figura da miserabile che oggi i grandi capi della nazione indiana, specialmente i Cherokee di cui si era dichiarata figlia, disertano con pretesti i suoi disperati inviti. Questa faccenda delle false appartenenze etniche non è nuova in America dove è facile bocconi elettorali da milioni di voti mettendo in campo il prozio di un bisnonno indiano mai esistito. I democrats hanno sempre preferito adulare l’elettorato nero afroamericano, che di fatto ha vissuto finora nelle grandi periferie urbane come quella di Chicago, trasferito se non deportato dalle originarie piantagioni del Sud quando erano in vigore le leggi razziste democratiche di Jim Crow entrate in vigore negli anni Ottanta del XIX secolo per vietare agli ex schiavi di votare e avere i diritti dei bianchi.
Quelle leggi furono in atto fino alla presidenza di Lyndon Johnson nel 1965 ma di fatto hanno sempre costituito una barriera razziale. Oggi l’elettorato afroamericano, che era stato compatto votando per Hillary Clinton, non ha più candidati democratici sicuri e crescono i giovani politici neri, come la giovane Candace Owens, schierati a spada tratta con il rude e biondastro Trump, terremotando la geografia elettorale dell’Unione. Oggi, dicono i polls, l’elettore democratico si raggruppa sempre più nelle megalopoli come New York, Chicago, Los Angeles o San Francisco, e si ritira dall’America provinciale centrale e del Midwest. Ma il partito democratico in questa trasformazione sta cambiando pelle, abbandonando sempre più quella moderata centrista, rappresentata dalla Warren che sbandiera oltre al falso Dna pellerossa anche la vera parentela repubblicana e militare della sua famiglia, per colorarsi di rosso socialista. La vera sorpresa in questo momento del campo democratico non è lo stramiliardario Bloomberg né il bell’uomo e comunque solido Biden, ma una vecchia conoscenza: l’anziano e vitale Bernie Sanders, un uomo da sinistra europea francese più che americana, ebreo di origini est-europee, amato dai giovanissimi che formano il cosiddetto “Venezuelan Party”, il partito venezuelano che si sente più vicino a Nicolàs Maduro e al defunto Hugo Chàvez, che non ai discendenti di Roosevelt, Kennedy e Clinton. Bernie ha sempre agganciato gli studenti idealisti dei college, gli intellettuali, gli ex comunisti (che negli Stati Uniti sono molti come dimostrano le numerose cattedre universitarie di natura marxista) e in genere i nostalgici di una “resistenza antifascista” in un Paese che il fascismo e il nazismo li ha incontrati soltanto sui campi di battaglia.
Questo switch, questa svolta secca di un elettorato che pur di non accettare Trump, abbandona il centro tenuto dai Clinton e passa al radicalismo europeo o sudamericano, è una nuova prova della profonda crisi di crescenza che il trumpismo nel male e nel bene (questione solo di gusti) ha impresso al Paese. Bernie Sanders ha già vinto i primi round dell’appena iniziata campagna elettorale e tutte le immagini e i video mostrano questo signore molto più vecchio di quanto sia, settantotto anni, circondato da una folla primaverile di adolescenti e universitari, ma anche giovani lavoratori e giovani idealisti, che rappresentano bene l’elettorato del Millennio, spumeggiante inni, slogan ecologici ed egualitari, femminismo e gruppi Lgbt, privo tuttavia di una politica e di una vera guida. Sanders intercetta l’onda, ma nessuno si illude che possa vincere la corsa perché la candidatura, seguendo le antiche regole e tradizioni, dovrebbe andare a Biden, oggi un’anatra zoppa o a Bloomberg che si mostra cattivissimo e radicalissimo, pur di intercettare anche lui l’ondata sbandata. Il giovane leone repubblicano Matt Gaetz, repubblicano anti-Trump della Florida, commenta: «Sono i venezuelani i nuovi rampanti del partito democratico, sono colorati ma non andranno lontano» .
