Se ne è andato cinque giorni fa, il 17 gennaio, ma solo ieri i familiari ne hanno dato notizia, a esequie avvenute. In quel di Brescia, ove era nato (il 26 febbraio 1929) e ove era sempre vissuto. Si conviene così a un filosofo che amava vivere nell’ombra, senza troppe scie mediatiche, e che così ha voluto lasciarci. D’altronde, il nascere e il perire per Emanuele Severino erano solo un’illusione, anzi una “follia”: la “follia del divenire” su cui si fonda il pensiero dell’Occidente. La cui storia, secondo la sua prospettiva, si è svolta tutta all’insegna del “tradimento” di Parmenide, cioè del pensatore presocratico che dalla cittadina di Elea (l’attuale Vella, vicino Salerno) aveva lanciato l’anatema sull’impossibilità di pensare, conoscere, parlare, di altro se non dell’essere, cioè di ciò che è eterno: “l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere”. La nascita e la morte sono illusioni prospettiche.
L’insistenza di Severino su questo motivo, il suo declinarlo in tutti i modi possibili e a contatto con tutti i problemi della vita e dell’attualità, ha dell’incredibile. In sostanza, per lui la storia dell’Occidente, che è poi la storia del suo pensiero, si è svolta tutta all’insegna dell’oblio del divieto parmenideo di pensare il non essere, il niente o nulla. Man mano che, dall’antichità classica a oggi, la nostra storia si è dispiegata, gli uomini per tener testa all’angoscia che sorge dal pensare il divenire, e quindi la propria morte, hanno escogitato tutta una serie di strategie rassicuranti che hanno provato a salvare dal divenire qualcosa a cui potessimo aggrapparci: Dio, l’Individuo, la Classe, il Capitale, la Democrazia, la Nazione…. Si tratta di entità ipostatiche che però poco alla volta si corrompono davanti alla forza della critica: ed è questa L’essenza del nichilismo (il titolo di un’altra sua opera fondamentale, del 1972). Esse cedono il passo all’ultima e più radicale fra tutte: la Tecnica.
È qui che Severino si apre al mondo di oggi e al futuro, osservando come, mentre gli uomini hanno agito in previsione di scopi per realizzare i loro fini, l’uomo tecnico che sta prendendo il sopravvento agisce non per realizzare i suoi obiettivi ma quelli stessi di questa entità che ci trascende. Tutto ciò che è tecnicamente possibile, è per Severino fattibile. E prima o poi sarà fatto. Alla Tecnica non si può opporre nessuna forza di resistenza, né ci si può illudere che l’uomo possa indirizzarla verso i propri fini. Se ne esce solo ritornando a Parmenide (Ritornare a Parmenide è il titolo di un suo importante saggio del 1964).
Ma se solo l’Eterno esiste, ed è qui e ora, cade tutto l’impianto della dottrina cristiana, che sull’idea di una “salvezza” futura ha costruito la sua dogmatica. Severino, che era allievo del grande filosofo cattolico Gustavo Bontadini e che nella sua opera mostra di averne introiettato diverse suggestioni, fu perciò oggetto nel 1970 di una “scomunica ufficiale” da parte della Congregazione per la dottrina della fede. Di conseguenza, dovette trasferirsi dall’Università Cattolica di Milano, ove si era formato e ove insegnava, a quella di Venezia. Ritornò a Milano solo nel 2005, chiamato da Don Verzè all’Università Vita-Salute del San Raffaele sulla cattedra di “Ontologia fondamentale”.
Severino è talmente originale da non essere inquadrabile in nessuna corrente o movimento filosofico contemporaneo. È fondamentalmente un pensatore “inattuale”, che si oppone allo “spirito dei tempi”: al “pensiero debole” di Gianni Vattimo, che è più in generale la cifra odierna della filosofia, egli ha opposto un pensiero a tinte forti, anche ostico e tortuoso. Vattimo, d’altronde, è stato una sorta di suo alter ego filosofico: come lui conosciuto e studiato all’estero, anche se poi paradossalmente Severino non ha mai viaggiato molto.
Il fatto strano è che però, forse anche grazie al suo stile ieratico e alla sua oratoria, la difficoltà del suo pensiero, che non ha mai nulla concesso al pop, non lo ha reso impopolare: le sue conferenze pubbliche erano sempre seguite da un folto pubblico, che forse non afferrava tutti i passaggi del suo pensiero ma che comunque lo ascoltava in religioso silenzio e lo stimava. Parlava spesso di sé in terza persona, non per spocchia ma per oggettivarsi quanto più possibile in un pensiero che seguiva un rigoroso filo logico del tutto estraneo al mondo empirico. Non gli mancava però qualche tratto di vanità quando, prima di concedere un’intervista (credo di avergliene fatte una decina), si assicurava che essa ottenesse almeno uno “strillo” in prima pagina.
Una delle ultime interviste l’ha concessa addirittura a Giuseppe Conte, che l’ha pubblicata nell’aprile scorso su Repubblica. Al presidente del Consiglio che parlava di “buona politica”, Severino proponeva di concepire una “Grande Politica”, all’altezza del tempo del predominio della Tecnica. Contro ogni naturalismo, egli ribadì allora che “l’uomo è infinitamente di più di quel che crede di essere”. Severino è stato il più teoretico dei filosofi italiani, ma anche paradossalmente quello che ha saputo narrare nel modo più speculativamente attendibile la storia della filosofia (La Storia della filosofia dalle origini a oggi, in più edizioni, Rizzoli, è a mio avviso la migliore in commercio).
Come già Hegel e Heidegger, si considerava il culmine di un processo di pensiero che si era svolto, in Occidente, lungo una linea di sviluppo di rigida conseguenzialità. Accademico dei Lincei e editorialista del Corriere della sera, Severino lascia una immensa bibliografia. Ricordo qui solo qualche titolo: La struttura originaria (1958); Techné. Le radici della violenza (1979); Il nulla e la poesia (Adelphi 1990, un saggio su Leopardi, che lui considerava un filosofo a tutti gli effetti); Oltrepassare (Adelphi, 2007); Democrazia, tecnica, capitalismo (Morcelliana, 2009); Sul divenire. Dialogo con Biagio De Giovanni (Mucchi, 2014); Cervello, mente, anima (Morcelliana, 2016); Storia, gioia (Adelphi, 2016); Il tramonto della politica (Rizzoli, 2017).
