Ogni giorno dichiarazioni infuocate, richiami agli ambasciatori, comunicati indignati. Poi si spegne il microfono e restano le agende. Qui sta la notizia: gli Stati arabi che hanno normalizzato con Israele non hanno smontato l’infrastruttura dei rapporti, semmai hanno abbassato il volume. La vetrina appare congelata, le luci spente ma nel retrobottega si continua a lavorare.
Gli Emirati sono un esempio da manuale. In pubblico la postura è severa, in privato il calcolo resta freddo: energia, acqua, sanità, cybersecurity, agritech, mobilità, logistica. Insomma, tutto ciò che serve a una città-stato che vive di efficienza e interconnessione. Per gli emiratini la normalizzazione non è un vezzo ideologico ma una rete di progetti, di protocolli tecnici, di contratti a lungo termine, roba insomma che non si resetta con un tweet ma semmai si rimodula magari cambiandogli nome. La diplomazia del non detto tiene insieme due frasi che in piazza sembrano inconciliabili, ovverosia la condanna politica e la cooperazione funzionale.
Il Bahrein, piccolo ma strategico, sta tra l’incudine e il martello, e cioè, tra la minaccia iraniana e il bisogno di sicurezza interna. In pubblico può alzare la voce ma dietro le quinte sa che la protezione delle infrastrutture, le barriere antidrone, le pratiche di contrasto ai proxy filo-iraniani non si improvvisano. Il Marocco gioca una partita ancora più chiara: il dossier che conta è il Sahara Occidentale. Tutto il resto è subordinato all’interesse nazionale. Cooperazione tecnologica, agricoltura di precisione, gestione dell’acqua, strumenti per la sicurezza dei confini: la normalizzazione ha aperto sportelli che non conviene richiudere. I voli si possono sospendere, gli annunci si possono ritoccare; ma i canali che portano soluzioni e know-how restano. Non si tratta di romanticismo geopolitico ma di qualcosa di molto più concreto e complesso, una sorta di ingegneria degli interessi.
Come funziona, nel concreto?
Con la grammatica del commercio e della tecnica. Holding e sub-holding, consorzi misti, hub logistici che cambiano scalo, “re-routing” di componenti e software, registri che parlano la lingua delle zone franche più che quella delle conferenze stampa. Perché, se ancora qualcuno non l’avesse capito, le merci non hanno bandiere ma hanno polizze. E i progetti non hanno ideologia ma cronoprogrammi, penali e tappe-chiave. Se una soluzione riduce perdite idriche, abbassa i costi energetici o chiude una falla di sicurezza, l’interesse la rimette all’ordine del giorno nel giro di poche ore.
Perché regge?
Perché offre valore, vale a dire acqua desalinizzata e reti intelligenti per Paesi assetati; sistemi medici e biotecnologici per chi vuole diversificare il proprio modello; difesa a livelli che non si improvvisano quando arrivano sciami di droni; porti e aeroporti che funzionano con standard globali; filiere alimentari più resilienti. La normalizzazione, tolta la patina delle foto di famiglia, è soprattutto scambio di utilità. E l’utilità, quando entra a regime, crea dipendenze reciproche. Qualcuno alzerà il sopracciglio: ma c’è un costo politico e la doppia lingua tra palcoscenico e backstage irrita chi vorrebbe linearità, ma gli apparati hanno imparato a navigarla: “sospendiamo”, “rivaluteremo”, “condanniamo” sono verbi che congelano la scena; dietro, la macchina non si ferma. Le opinioni pubbliche vanno rassicurate, le piazze placate, i dossier domestici tenuti a bada. È il prezzo, non il freno. E intanto nessuno smantella le infrastrutture portanti perché non si chiude una centrale per far pace con lo slogan del giorno.
C’è poi il capitolo taciuto, ma che pesa più di tutti. Quello cioè intestato alla sicurezza che comprende scambi d’informazioni, allarmi in tempo utile, pratiche di mitigazione per la minaccia iraniana e i suoi satelliti. In altre parole si può dire che cooperare qui non è un vezzo ma un’assicurazione sulla vita. E le assicurazioni non si annullano per un comunicato. Il giorno in cui serve, la linea deve squillare. E squilla.
Chi continua a raccontare che “la normalizzazione è morta” confonde la scenografia con l’impianto elettrico. È ipocrisia? No: è politica nel mondo reale. Smontare la favola del gelo totale serve a rimettere i fatti al loro posto. Le frasi cambiano e i cavi restano. E finché restano, i rapporti esistono. Anche quando il volume è al minimo.
