Erdoğan ghigna a Sharm agitando Trump e la Nato. La Turchia può diventare un problema

President Donald Trump greets Turkey's President Recep Tayyip Erdogan during a summit to support ending the more than two-year Israel-Hamas war in Gaza after a breakthrough ceasefire deal, Monday, Oct. 13, 2025, in Sharm El Sheikh, Egypt. (AP Photo/Evan Vucci, Pool)

Esiste un problema turco? Questa è la vera domanda del dopo Sharm el-Sheikh, una fase quasi postrema all’interno di un movimento tattico e si ipotizza anche strategico che punta a ridisegnare gli equilibri internazionali nell’area mediorientale. Per anni – e tutt’ora – si scrive e si racconta la crescente pressione turca nel mediterraneo come realizzazione pratica di un teorizzato neo-ottomanesimo che già da tempo è sotto gli occhi di tutti, ma per ragioni varie tra cui il timore di dover poi arrivare a redde rationem, conduce ad evitare di porsi la domanda.

Alla fine la Turchia è un Paese Nato, rappresenta una media potenza e un partner importante per l’Occidente, benché non abbia mancato di mostrare spesso la sua doppiezza, servita senza troppi fronzoli come ai tempi del sedicente Stato islamico, con il quale intrattenne relazioni lungo il confine, consentendo uno sbocco commerciale per il petrolio proveniente dai territori occupati dai tagliagole. La Turchia è stata spesso l’elefante nella stanza, l’alleato scomodo con il quale fare i conti, il partner di cui diffidare, soprattutto da quando i principi del kemalismo sono stati abbandonati sulla via di un ritorno al sogno imperiale solcato sulle ali dell’Islam e non più sulla via dell’Europa secondo il modello di Atatürk e della Turchia moderna. Ma almeno fino al giorno della pace tra Israele e Hamas, nessuno aveva definito o aveva fatto riferimento alla Turchia come un problema, né si era parlato apertamente di problemi tra la Turchia e i partner occidentali.

A farlo non poteva che essere Donald Trump, che di Erdoğan non ha mancato di tessere le lodi, apprezzandone l’essere “un tipo tosto”, ma ammettendo di essere spesso sollecitato sul tema dalla “NATO” che ha “problemi” con la Turchia. Confermando il tema di mediatore tra alleati e Turchia. Ora che la pace appare fatta, i nuovi equilibri prendono forma, e Erdoğan sogghigna per aver indebolito i suoi avversari regionali, è chiaro che la NATO, nella sua componente europea, dovrà affrontare la questione turca. Così come – al di là dell’interessamento salutista di Erdoğan verso la passione per le sigarette del nostro Presidente del Consiglio – la stessa Italia deve porre al primo posto il “problema turco” partendo da quella quarta sponda in cui Ankara ha messo gli scarponi.

Dalla Libia al Corno d’Africa, ovunque Roma poggi lo sguardo per ripristinare il suo legittimo ruolo di centralità politica e strategica, sono comparse le bandiere turche, le scuole coraniche turche, gli investimenti turchi, e la presenza militare turca. Ma il destino dei problemi in politica estera è quello che per quanto possano fluttuare ed essere scansati più o meno intenzionalmente, prima o poi finiscono per frapporsi tra i propri desiderata e obiettivi. Così è anche per un impero che, cresciuto all’ombra delle grandi potenze e giocando su più tavoli, ha saputo trarre vantaggio da ogni frattura e cambio di scenario, dimostrando una straordinaria capacità camaleontica.

Un non-amico che l’Occidente ha dovuto sottovalutare e al quale prima o poi dovrà porre un Limes, senza il quale persino la memoria di Lepanto perderà ogni significato. Un ostacolo anche alle future e crescenti ambizioni dello stesso Piano Mattei. Un “problema” che potrebbe accrescere il suo peso se il credito di Ankara verso l’Occidente crescesse, e qualora giocasse il ruolo di mediazione determinante con Mosca. Di certo, dopo Sharm el-Sheikh, si è alzato il sipario anche nel confronto tra le medie potenze. Chi sceglierà di parteciparvi dovrà essere pronto a giocare una lunga e dura partita.