Quella tra Israele e Turchia è una sfida complessa. Il premier Benjamin Netanyahu non ha mai negato che la guerra “su sette fronti” (Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria, Iraq e Iran) era contro Teheran e i suoi ayatollah, gli avversari più importanti per lo Stato ebraico. Ma nelle pieghe di questo conflitto, che non è ancora terminato, come hanno suggerito anche di recente i vertici del Mossad, c’è un altro duello strategico. Ed è quello con Ankara. La questione è aperta ormai da molti anni, e lo confermano le tensioni continue tra i governi israeliani e Recep Tayyip Erdoğan. Tuttavia, in questa fase, la partita si sta rivelando molto più complicata, complice proprio il potenziale vuoto lasciato dall’Iran in diversi settori. La fine del regime di Bashar al Assad ha prodotto l’ascesa di un uomo, Ahmed al-Sharaa, che è stato per anni un pilastro della strategia turca in Siria. Nella Striscia di Gaza, Hamas ha confermato i solidi rapporti con la Turchia grazie anche ai buoni auspici del Qatar, alleato di Erdoğan e unito nella Fratellanza Musulmana. Israele per ora ha posto il veto a qualsiasi presenza militare turca nella regione palestinese qualora dovesse arrivare il semaforo verde alla Forza internazionale di stabilizzazione. L’assenza turca al vertice in Qatar è stata una prima vittoria diplomatica di Benjamin Netanyahu. Ma il fatto che oggi, a Miami, l’inviato Usa Steve Witkoff veda emissari di Egitto, Qatar e Turchia proprio sul futuro di Gaza, conferma il ruolo di Ankara nel dossier più importante per Israele. Un ruolo che qualche osservatore teme che la Turchia, pur con minore peso, possa avere anche in Libano, soprattutto con la forza di Hezbollah degradata. Mentre in Iraq, l’influenza turca è forte anche in Kurdistan.
Questo scenario complica i piani di Israele. Perché con un’America che sembra sempre più disinteressata al Medio Oriente (questo almeno è ciò che dice la nuova strategia di sicurezza pubblicata nelle ultime settimane), la lotta tra potenze regionali potrebbe inasprirsi. E la Turchia non è un Paese come gli altri. Membro della Nato, con una strategia di ampio respiro, forze armate all’avanguardia e con un’industria bellica molto valida, Ankara è già un potenziale rivale dello Stato ebraico in tutto il Levante. E Israele sa che per mantenere la propria superiorità strategica, ciò deve andare in parallelo alla sua superiorità tecnologica. E questo, in ambito della difesa, ha uno dei suoi tasselli nell’aviazione. Netanyahu in questi anni ha saputo conservare questa specificità anche perché Israele è l’unico Paese ad avere gli F-35. L’altro doveva essere proprio la Turchia, che chiede di partecipare al programma da anni. Ma ne è stata esclusa per l’accordo con la Russia sul sistema di difesa S-400.
Un tema delicato per Erdoğan, che non può né vuole tagliare i ponti con Mosca. Ma qualcosa, proprio sotto questo aspetto, potrebbe cambiare. Secondo Bloomberg, infatti, il governo turco starebbe pensando di restituire ai russi quei sistemi per rientrare nel programma F-35. E Tom Barrack, inviato Usa per il Medio Oriente, ha ribadito anche la scorsa settimana che la presenza degli S-400 è un ostacolo insormontabile per partecipare al programma dei caccia. Dal Cremlino, il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, ha detto che questo scenario (né smentito né confermato) non minaccia in alcun modo le relazioni tra Mosca e Ankara. In Turchia, i media hanno provato a frenare sull’ipotesi. Ma l’impressione è che il dialogo tra i due Paesi, su questo tema, esiste da tempo. E Israele osserva con attenzione tutte le mosse. Perché se il Paese di Erdoğan rientrasse nel programma dei caccia multiruolo di quinta generazione, l’equilibrio strategico e tecnologico in Medio Oriente cambierebbe ancora una volta. Così come è cambiato, in parte, dopo che l’Arabia Saudita ha siglato con il Pakistan un patto di mutua difesa.
Per frenare le ambizioni turche, Netanyahu ha da tempo dato il via a una serie di iniziative politiche e strategiche. Su tutte l’asse con Cipro e Grecia, eterni rivali di Ankara nel Mediterraneo orientale. Come hanno scritto i media locali, Israele, proprio con questi due Paesi, starebbe anche pianificando una forza di reazione rapida congiunta. Un contingente di circa 2.500 uomini (mille dell’Idf, mille delle forze armate elleniche e 500 ciprioti) che opererebbe con componenti aeree, terrestri e navali. E per molti questo dovrebbe essere un modo per inviare un messaggio alla Turchia e per proiettare Israele anche più in profondità nel Mediterraneo.
