Il summit tra i vertici dell’Unione europea e le controparti dell’Unione africana, conclusosi due giorni fa a Luanda, in Angola, è finito quasi del tutto in ombra. Il concomitante G20 di Johannesburg, ma soprattutto la crisi russo-ucraina, hanno distolto l’attenzione da un appuntamento che non si celebrava ormai da tre anni e che avrebbe tutte le carte in regola per essere un giro di boa nel processo di crescita del continente africano.
L’ultima volta che Ue e Ua si sono sedute allo stesso tavolo è stato nel 2022. E si era a Bruxelles. Questa volta, il summit si è tenuto in una cornice dal forte sapore simbologico. Sono cinquant’anni che l’Angola – presidente di turno dell’Unione africana – ha ottenuto l’indipendenza dal Portogallo, Paese di origine del presidente del Consiglio Ue, Antonio Costa. Dopo mezzo secolo, l’Europa torna dove il colonialismo di fatto è finito. Cosa vi porta? Con che spirito?
Von der Leyen e Costa si sono presentati al summit con l’intenzione europea di rafforzare quei legami economici che le permetterebbero di tornare a essere competitiva di fronte agli Usa e alla Cina. La cosiddetta twin transition ha in pancia una domanda di materie prime senza le quali nulla è davvero possibile. Litio, terre rare, ma anche petrolio e gas sono prioritarie per le nostre industrie. C’è chi direbbe che è lo stesso motivo per cui si combatte in Ucraina. «L’obiettivo – ha detto von der Leyen – è costruire catene del valore resilienti, ma anche infrastrutture locali e creare posti di lavoro». D’altra parte, molti Paesi africani sono già fornitori di commodity a Pechino, che ha spesso utilizzato la Belt and Road Initiative, il suo programma di sviluppo internazionale, per assicurarsi diritti minerari in cambio di progetti infrastrutturali. Anche Washington, per quanto sia molto indietro rispetto a Pechino, sta puntando a recuperare con investimenti in Africa.
Trump ha esteso l’ombrello di sicurezza Usa a zone di guerra in cambio di accesso alle risorse, per esempio negoziando il fragile accordo di pace tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. A sua volta, la presenza della Russia costituisce una sorta di legacy ancora di epoca sovietica, di cui oggi resta evidente la componente militare. Infine c’è il mondo arabo. Tutt’altro che new entry in Africa. Gli emiri sono forse i più disinvolti nello stringere accordi con qualsiasi regime locale. Senza alcun distinguo di carattere etico.
Questo significa che per Bruxelles la competizione è tutt’altro che semplice. Tanto più che la Cina e appunto i rappresentanti del mondo arabo-islamico non hanno da giustificarsi di alcun passato coloniale e nessun interesse a imporre un proprio modello politico. Democrazia e libero scambio sono un’esclusiva dell’Occidente, che però non ha saputo trasmetterne i vantaggi.
E nemmeno giova all’Europa la recita del mantra per cui i mali dell’Africa sono tutti colpa nostra. I leader africani non ci impediscono di auto addebitarci questa responsabilità storica, che però andrebbe analizzata con più attenzione, piuttosto che essere assunta come un dogma generalizzato. A questo si aggiunge l’intenzione, ripetuta a ogni piè sospinto, di evitare un nuovo colonialismo. Anzi, c’è l’impegno a correggere gli errori passati. Ma sono in molti a non credervi. A summit in corso, Politico.eu raccoglieva le critiche di molte Ong, sicure che l’Ue non voglia far altro che sfruttare il continente. All’Ue viene rinfacciato il fatto che le regole proposte per obbligare le aziende a controllare le proprie catene di fornitura per danni ambientali e violazioni dei diritti umani stanno morendo lentamente. Bruxelles starebbe facendo sue le lamentele delle imprese europee che non vogliono sostenere i costi di conformità.
Al contrario, il punto di partenza delle buone intenzioni di Bruxelles è l’agenda di investimenti Global Gateway, che dal 2022 coinvolge anche il mercato africano e che prevede di mobilitare 150 miliardi di euro per i Paesi africani entro il 2027. «Da allora, abbiamo mobilitato oltre 120 miliardi di euro», ha spiegato la presidente della Commissione Ue. «L’Europa è il più grande partner commerciale del continente africano. E siamo il più grande investitore sul posto, con 240 miliardi di euro solo nel 2023».
Al di là delle perplessità e delle polemiche, è questa la risposta che l’Ue dà ai leader africani. Un’alternativa alla spregiudicatezza di un qualsiasi regime dirigista, strutturato sul decisionismo e che non chiede nulla in cambio. L’Europa è collegiale. Non ha un partito monocratico, come quello comunista cinese, che impone una rotta. Le sue scelte vengono condivise e riflettute. Non solo sulla base di calcoli e interessi economici, ma anche con il fine di introdurre valori quali diritti umani e governance più trasparenti in Paesi dove questi tardano a radicarsi.
