Fassino: “I giovani dirigenti del Pd non sanno cos’è il sionismo, criticare Netanyahu non significa criminalizzare ebrei e israeliani. Non c’è più dialettica ma solo caccia al ‘traditore interno'”

PIERO FASSINO POLITICO

Piero Fassino, ultimo segretario del Pds, co-fondatore del Pd e poi dell’associazione Sinistra per Israele, diventa pietra dello scandalo per aver visitato, da deputato italiano, il parlamento israeliano ed aver ribadito un dato di realtà sin troppo evidente: Israele è una democrazia. Dal suo stesso partito e dal campo largo gli sono piovute addosso accuse di ogni tipo.

Onorevole Fassino, partiamo dall’inizio: perché era a Gerusalemme e alla Knesset?
«Ero a Gerusalemme perché esiste da oltre quindici anni un Protocollo di cooperazione tra la Camera dei Deputati e la Knesset, rinnovato a ogni legislatura. Prevede una cabina di regia con cinque parlamentari italiani e cinque israeliani. Siamo andati in tre – Orsini, Formentini e io – perché gli altri due colleghi erano impossibilitati. Quella delegazione era l’espressione non di un’alleanza politica, ma della rappresentatività del Parlamento».

Che obiettivo aveva quella missione?
«Ricognizione sul campo della situazione dopo l’entrata in vigore del piano Trump. Abbiamo avuto incontri a 180 gradi: ministro degli Esteri, esponenti della maggioranza, leader dell’opposizione, autorità religiose, società civile, famiglie delle vittime del 7 ottobre. E in tutti i colloqui io ho sempre ribadito la necessità della soluzione “due popoli, due Stati” e denunciato le inaccettabili violenze dei coloni in Cisgiordania, chiedendo di fermarle».

Poi da Roma vi contatta l’Unione delle associazioni di amicizia con Israele. Perché quel passaggio ha scatenato il finimondo?
«Perché ho detto che Israele è un Paese democratico. È bastato questo per sollevare un pandemonio. Lo trovo paradossale: Israele è fondata e vive sullo stato di diritto; c’è una magistratura che processa il primo ministro; c’è una stampa libera che non ha esitato a denunciare i misfatti del governo e le violazioni dei diritti consumati dall’esercito israeliano a Gaza. C’è un Parlamento in cui l’opposizione combatte ogni giorno, scende in piazza e riempie le strade contro Netanyahu. E come accade in tante nazioni democratiche – in Francia, in Italia, in Germania, negli Stati Uniti – anche in Israele c’è una destra, oggi al governo con Netanyahu, e ci sono formazioni apertamente razziste, come i partiti di Smotrich e Ben Gvir. Ma questo non significa che Israele non sia una democrazia. Negarlo significa negare la realtà e soprattutto dare uno schiaffo a chi in Israele combatte ogni giorno contro la destra e per una politica diversa».

Laura Boldrini sostiene che non si possa più parlare di democrazia israeliana. Cosa le risponde?
«Le rispondo di guardare Israele per quello che è. Non significa giustificare Netanyahu, che ha responsabilità enormi, anche prima del 7 ottobre. Quando fu assassinato Rabin, la prima dichiarazione di Netanyahu fu “con Rabin è morta anche Oslo” e da allora ha fatto di tutto per sabotare ogni soluzione politica. Ma criticare Netanyahu – e io l’ho sempre fatto – non autorizza a negare che Israele sia una democrazia. Se mai dovremmo sostenere con molta più determinazione chi in Israele ogni giorno si batte contro le torsioni autoritarie del governo».

Lei parla di una sinistra passiva, incapace di reagire agli eccessi di ostilità verso gli ebrei. È così?
«Sì. Si chiede conto a qualsiasi ebreo, anche non israeliano, delle azioni di Netanyahu. E si criminalizzano gli ebrei per il solo fatto di essere tali. È un meccanismo inaccettabile che spesso declina in parole, atti e manifestazioni di antisemitismo, il cui numero è cresciuto in modo impressionante. Troppi a sinistra lo giustificano dicendo: “è colpa di Netanyahu”. No. Le responsabilità di Netanyahu ricadono su di lui, non sugli ebrei, né sulla intera società israeliana».

Sul Ddl Delrio contro l’antisemitismo si è consumata un’altra lacerazione. Come la legge?
«È assurdo sostenere che contrastare l’antisemitismo significhi vietare la critica a Israele. Il Ddl Delrio – a differenza di altri disegni di legge – non punta su sanzioni penali, ma rafforza prevenzione, educazione, conoscenza. Peraltro basta ricordare che proprio Delrio è intervenuto in aula più volte criticando aspramente Netanyahu. Eppure oggi si dipinge quella legge come un bavaglio. È ridicolo».

Delrio deve ritirare il provvedimento?
«Non vedo perché. Fa parte delle prerogative insindacabili di un parlamentare presentare proposte di legge. Peraltro un disegno di legge non viene approvato a scatola chiusa, ma discusso in Commissione e in aula dove lo si può emendare, migliorare, integrare. E mi colpisce questo atteggiamento di “radicalismo referendario” per cui di una proposta si può solo dire sì o no. Ma la politica dovrebbe essere confronto, comprensione delle ragioni di ognuno e ricerca di sintesi. Il Parlamento non è un tribunale inquisitorio».

A proposito di inquisizione: rinasce il vecchio centralismo democratico?
«E mi fa sorridere: fui io stesso, nel 1988, a proporre l’abolizione del centralismo democratico nell’ultimo congresso del PCI. Vedo riemergere una vecchia tara della politica: se sorge un problema non si cerca di capirne le ragioni e di risolverlo, ma lo si addebita a un “traditore interno”. Per cui eliminando il traditore, il problema è risolto. È la morte della dialettica politica e della possibilità stessa di sentirsi parte di una comunità».

Quando vede giovani dirigenti che chiedono l’espulsione di Fiano e Fassino perché “sionisti”, cosa pensa?
«Penso che non sanno cos’è il sionismo. Il sionismo è nato alla fine dell’800 nell’alveo del movimento socialista. La prima tessera del movimento sionista era un bue che trascina un aratro in un campo di grano illuminato da un sole nascente. Una simbologia socialista. È la sinistra sionista che ha fondato Israele: Ben Gurion, Levi Eskol, Abba Eban, Golda Meir. Il kibbutz è stato il simbolo di un socialismo democratico autogestionario. E Rabin e Peres, gli artefici della pace di Oslo erano sionisti. E il principale avversario del sionismo democratico è proprio quella destra messianica che vuole l’annessione della Cisgiordania e rifiuta ogni soluzione di convivenza di ebrei e palestinesi».

E invece oggi “sionista” viene usato come un insulto. Perché?
«Per ignoranza. E per la deriva manichea che divora il dibattito: tutto diventa bene o male, Israele o Palestina. Giorgio Napolitano – che si è dedicato molto al rapporto tra sinistra e mondo ebraico – ricordava che “l’antisionismo è antisemitismo travestito”. L’ebraismo è una delle radici della civiltà europea e della stessa identità della sinistra e percorre l’intera storia della sinistra dalla fine dell’800 ai giorni nostri. Siamo cresciuti leggendo Amos Oz, David Grossman, Avraham Yehoshua, guardando i film di Amos Gitai, amando le canzoni di Noa. Tutti ebrei di sinistra».

Criticare Israele per Gaza è legittimo. Ma cosa non è legittimo, secondo lei?
«Denunciare la politica di Netanyahu non solo è legittimo, è necessario e doveroso. Ma non è legittimo trasformare anche la denuncia più severa nella criminalizzazione di un intero Paese e ancor peggio in una colpevolizzazione di ogni ebreo. E l’aumento impressionante di episodi di antisemitismo ci dice che siamo già oltre il limite di guardia, come ha denunciato in questi giorni anche il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Mons. Zuppi».

Lei ha incontrato la madre di una ragazza uccisa al Nova Festival. Cosa le ha detto?
«Mi ha detto: “Io voglio solo che non accada mai più”. Parole semplici, essenziali che dicono quale è la paura che attanaglia oggi tanta parte della società israeliana e con cui dobbiamo fare i conti se vogliamo costruire seriamente una soluzione di pace che dia sicurezza agli israeliani e una patria ai palestinesi».

La soluzione “due popoli, due Stati” è ancora possibile?
«Il terribile massacro del 7 ottobre e la feroce guerra di Gaza la rendono più difficile perché la fiducia reciproca è stata devastata. Ho incontrato israeliani che fino a ieri non avevano dubbi, che ora si chiedono: “E se accadesse di nuovo?”. Dobbiamo affrontare questa domanda, non liquidarla con slogan moralistici. Soprattutto se, come io sono convinto, in ogni caso l’unica possibilità di una pace sicura è una soluzione di convivenza tra due popoli in due Stati reciprocamente riconosciuti. E negare il diritto a una patria ai palestinesi consegnerebbe una giusta rivendicazione nelle mani di Hamas e dell’estremismo islamico».

Hamas, pur divisa tra oltranzisti e non, sembra orientata a accettare il disarmo. Lei Fassino è ottimista sulla “fase 2”?
«Si deve fare di tutto perché il Piano Trump vada avanti e da una precaria tregua si passi alla costruzione di un percorso di pace. Hamas è a un bivio. O accetta il disarmo abbandonando la lotta armata, riconosce l’esistenza di Israele accettando la soluzione due popoli/due Stati e si trasforma in un movimento politico, così come fecero l’Eta nei Paesi Baschi e l’Ira in Irlanda del Nord. Oppure rifiuta il disarmo e persevera nell’obiettivo di “una sola Palestina dal fiume al mare”, sapendo che questa scelta significa bloccare il piano di pace e di provocare la ripresa della guerra. È importante che i Paesi che più hanno influenza su Hamas esercitino tutta la pressione necessaria per scongiurare quella seconda eventualità. Ma anche il governo israeliano è a un bivio: riavviare con l’ANP un processo che porti a una soluzione condivisa con i palestinesi o rifiutare la nascita di uno Stato palestinese suscitando così nuovi conflitti. Anche in questo caso la comunità internazionale ha il dovere di agire».

Una deriva manichea, figlia dell’era dei social, sta distruggendo il dibattito politico?
«La politica non solo non argina la logica dei social, troppo spesso la assume e se ne fa guidare. Io vengo insultato ogni giorno per il solo fatto di proporre una visione non manichea di Israele. È il segno di un degrado che non riguarda solo la questione israelo-palestinese: è diventato un modo di pensare e di agire. E la politica, invece di contrastarlo, lo cavalca».