Ci sono momenti in cui occorre alzare lo sguardo. Momenti in cui il rumore assordante del tinello domestico stride con le tragedie vere che si consumano oltre i nostri confini. L’Europa è attraversata dalla guerra più feroce dalla fine del secondo conflitto mondiale: l’aggressione russa all’Ucraina dura da oltre tre anni, ha devastato un Paese e rimesso in discussione i fondamenti stessi della sicurezza continentale. Il Medio Oriente è precipitato in un conflitto senza precedenti: Gaza è un campo di battaglia e Israele combatte una guerra esistenziale, contro Hamas e contro un intero fronte regionale che si allarga.
Più in generale, è in corso un riassetto, direi uno sconvolgimento geopolitico che ridisegna i rapporti di forza mondiali: la Cina che si propone come polo alternativo, gli Stati Uniti in bilico tra leadership e tentazioni isolazioniste, l’Europa alla perenne ricerca di sé stessa. È un mondo diverso, instabile, inedito. In questo scenario noi del Riformista non facciamo mancare la nostra voce. Non siamo neutrali, non giochiamo con le parole: prendiamo posizioni chiare, esplicite, talvolta scomode. Ma avvertiamo anche un dovere: distinguere ciò che è maledettamente serio dall’eterno teatrino nostrano.
Ecco il punto. Mentre la storia accelera e il mondo si trasforma, in Italia la discussione pubblica assume sempre più forme caricaturali. Scioperi generali annunciati un giorno sì e l’altro pure, con chiarissime e strumentali finalità politiche. Proteste nelle università ridotte a occupazioni rituali, con i drammi internazionali risucchiati dentro slogan di terza mano. Manifestazioni, spesso unite da sentimenti antisemiti, che diventano arene per scontri fisici tra gruppi estremisti in cerca di visibilità. Politici, opinionisti e agitatori che si insultano per finta nei talk show, mentre fuori, nel mondo reale, esplodono missili e muoiono civili. Va in scena così, dalle nostre parti, una versione penosa e grottesca della cosiddetta polarizzazione politica: un’indecente radicalizzazione i cui protagonisti mostrano solo disprezzo verso chi soffre davvero, verso chi combatte e muore. Ma se riduciamo la tragedia a spettacolo, a coreografia del consenso, non esercitiamo il diritto di parola, diventiamo solo – tutti – delle marionette.
Per questo l’appello che ci sentiamo di lanciare è semplice, quasi elementare: fermiamoci. Fermiamoci un momento. Smettiamo di agitarci nel piccolo cabaret quotidiano. Proviamo, in qualche modo e da qualche parte, a discutere con civiltà di temi veri: la guerra, la pace, l’Europa, il futuro della democrazia, il lavoro che cambia, la transizione energetica, la giustizia sociale. Dando peso alle parole, non usandole come coriandoli. Fermarsi non significa tacere. Significa scegliere parole che rispettano la gravità del tempo che viviamo. Significa abbandonare il grottesco e ritrovare il senso della responsabilità. Il mondo ci chiede serietà. Tutto il resto non è più tollerabile.
