“Figlio mio non sono un mito”, il patto tra boss al 41bis e giudice: 14enne crescerà lontano

Lui, il padre, è un capomafia detenuto al carcere duro, un boss. Suo figlio, è un ragazzo di 14 anni, cresciuto nello stesso quartiere dove suo papà dettava legge. Per il giovane il futuro era già segnato, non doveva far altro che seguirne le orme, in una scalata delle gerarchie del crimine già scritta nel suo dna.

Tutto cambia quando il boss indossa i panni del padre e vede nel futuro del figlio quella che è stata la sua vita, allora si appella al presidente del Tribunale di Catania: “Dottore, la prego, tenga lontano mio figlio da quel maledetto quartiere”. In ballo c’è il futuro di un ragazzo di 14 anni.

Adesso il ragazzo si trova lontano dalla Sicilia, ospite in una comunità. Il boss, sempre al 41 bis, collegato in video conferenza e il giudice hanno parlato durante l’udienza. Cosa si sono detti lo ha ricostruito Roberto Di Bella a Repubblica Palermo: “Mi ha parlato della sua sofferenza, del dolore che prova nel non potere abbracciare i suoi figli”. Ad impedirglielo, durante i colloqui, c’è un vetro blindato. Da regolamento serve ad evitare ogni contatto fra i capimafia e i propri cari.

Il giudice e il boss hanno siglato “un patto educativo” per evitare che il figlio un giorno posa provare “la stessa sofferenza che sta provando lui”. I segnali sono confortanti a giudicare dal contenuto della lettera che il padre ha scritto al figlio: “Rispetta tutte le indicazioni che ti danno in comunità e, soprattutto, non mi considerare un mito, ma un fallimento“. Frasi chiare per tentare di scacciare dalla mente del figlio la seduzione del male per il suo cattivo esempio.

Non c’è pentimento personale, nessuna notizia di una sua volontà di collaborare con la giustizia, solo un gesto verso il figlio. Lo stesso amore che ha spinto due madri catanesi, come ricostruito da Di Bella, a farsi avanti dopo essere state coinvolte in inchieste giudiziarie. Donne che hanno chiesto una seconda opportunità, per costruirsi un futuro con i figli lontano da tutto e tutti.

Il protocollo si chiama ‘Liberi di scegliere’, e prevede un percorso di accompagnamento e sostegno da parte dell’associazione Libera, per un nuovo inserimento, anche lavorativo. Non accade sempre così. A volte è la magistratura a dovere intervenire, revocando la potestà genitoriale.

Come accaduto alla Procura per i minorenni di Palermo che ha chiesto il trasferimento in comunità di sette minori, anche se i casi da valutare sono molti di più. Una cinquantina in tutto. Sotto gli occhi dei bambini i genitori preparavano le dosi di droga e contavano i soldi incassati con lo spaccio di stupefacenti nel rione Sperone, dove carabinieri e poliziotti di recente hanno arrestato più di sessanta persone.