Dal mondo
Filantropia telescopica: dall’Occidente ai regimi, la libertà cambia pelle
Ho letto la missiva di Cristina Battocletti, “Milano e Palestina: io c’ero”, pubblicata su Doppiozero dopo una giornata in cui Milano ha visto scendere in strada tantissime persone che non si rassegnano, che vogliono “fare qualcosa”. La voce che la scrive sembra dar forma a quel sentimento collettivo: un desiderio di giustizia che non sopporta l’indifferenza. Lo capisco, e in parte lo condivido.
Ma mentre leggo, mi tornano in mente pagine di letteratura che da più di un secolo raccontano un fenomeno, che Dickens chiamava telescopic philanthropy. È la stessa dinamica che lui descrive con feroce ironia in Bleak House: la signora Jellyby tutta presa a “civilizzare l’Africa” mentre i suoi figli si feriscono in casa. E ancora, in Pollyanna, l’episodio del Ladies’ Aid Society, il gruppo femminile della chiesa che preferisce mandare soldi alle missioni in India piuttosto che aiutare l’orfano del proprio villaggio. Sono i casi della carità “a distanza”, quella che fa sentire nobili ma evita il contatto con la realtà più vicina e scomoda.
Colpisce, nella lettera, la scena delle “donne con l’hijab che sorridevano felici di vedere il calore di Milano”. Un’immagine descritta con sincero entusiasmo, quasi infantile, come se quel sorriso fosse la prova che “qualcosa in loro cambierà”. Ancora più rivelatore è un altro passaggio, dove l’autrice scrive: “Personalmente avrei fatto lo stesso per i bambini e i civili uccisi dalla follia di Hamas il 7 ottobre in Israele”. Quell’“avrei fatto”, tutto al condizionale, suona come una medaglia di bontà appuntata sul petto, ma resta un’ipotesi, non un fatto. La piazza a cui partecipa è dedicata a una sola parte del conflitto; l’universalismo dichiarato resta quindi un sentimento astratto, più vicino al conforto morale che all’azione reale.
Eppure, il 7 ottobre 2023, il giorno del massacro compiuto da Hamas in Israele, a Milano non ci fu una folla inorridita. In piazza eravamo pochi: soprattutto membri della Comunità ebraica, alcune bandiere ucraine e le bandiere iraniane portate dalle donne del movimento Donna, Vita, Libertà, presenti per denunciare la violenza di Hamas, l’organizzazione che controlla de facto la Striscia di Gaza – non uno Stato riconosciuto, ma un gruppo armato di matrice terroristica che ha rifiutato ogni proposta di riconoscimento reciproco fin dal piano Onu del 1947 – e per esprimere solidarietà alle vittime.
Questo ricordo rende ancora più evidente la distanza tra il volto rassicurante di chi a Milano indossa l’hijab e sorride – simbolo di una diversità che qui appare accolta – e la realtà di quelle stesse donne in Iran, costrette a portarlo, che rischiano la vita per liberarsene. Vedere la “diversità” accanto a sé non è lo stesso che viverla, e lottare ogni giorno contro chi la impone con violenza. La lettera, pur animata da compassione, elenca conflitti (Ucraina, Sud Sudan, Sahel…) con la stessa rapidità con cui la folla ha salutato l’atto di rompere le telecamere, sorvolando sulle ambiguità interne: il black bloc, la violenza, l’esultanza. Sono dettagli presenti, ma messi tra parentesi, come il disordine, descritto da Dickens, nella casa della signora Jellyby. E anche il cinema ci ricorda che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”.
Lo mostra con ironia la commedia francese À bras ouverts, in cui un politico proclama “accogliamo tutti” e si ritrova davvero una famiglia rom nel giardino di casa propria. Lì finisce la retorica e comincia la prova quotidiana dell’inclusione: cucine da condividere, regole da negoziare, conflitti da affrontare. Per questo sorprende che, dopo tanta esperienza storica e letteraria, continuiamo a lasciarci sedurre da una filantropia che preferisce l’orizzonte remoto alla fatica, e soprattutto al coraggio, di guardare e cambiare ciò che ci sta accanto.
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