La Global Sumud Flotilla prova l’ennesimo tentativo velleitario di violare il blocco navale imposto da Israele a Gaza: un’operazione militare difensiva, perfettamente legittima secondo il diritto internazionale, che impedisce l’ingresso via mare di armi, uomini e rifornimenti bellici in un territorio controllato da un’organizzazione terroristica come Hamas. Eppure, decine di imbarcazioni vogliono salpare con un carico ben diverso: protagonismo, ideologia e una buona dose di esibizionismo mediatico, con dentro tutto il teatrino dell’attivismo occidentale. Una sfilata d’élite che pensa di poter trasformare un atto di sfida contro uno Stato in guerra in un gesto di giustizia morale. Ma di quale giustizia parlano?

Iniziativa legale?

C’è chi, come Alessandro Barbero, ha definito in diretta tv l’iniziativa “perfettamente legale”. Una frase che lascia perplessi, considerando che il blocco navale israeliano è stato più volte riconosciuto come legittimo, proprio perché finalizzato alla sicurezza in un contesto bellico. Romperlo non è “legale”: è una provocazione consapevole, inutile, e pericolosa. Pericolosa, prima di tutto, per chi partecipa. Coordinare 50 barche in navigazione verso un’area militarmente sensibile non è un gioco. Se qualcosa dovesse andare storto – maltempo, collisioni, panico – il rischio non sarebbe simbolico, ma concreto. Con il mare non si scherza, e la notorietà non è un giubbotto salvagente.

Nessun aiuto

Pericolosa, poi, per la verità. L’esito è già scritto: Israele non permetterà a nessuna barca di raggiungere Gaza. Lo ha già fatto, lo rifarà. Le navi saranno sequestrate, i partecipanti identificati ed espulsi, molti con divieto di rientro. E allora qual è il senso? Nessun aiuto concreto ai civili. Nessun carico utile. Solo milioni di euro bruciati – in barche confiscate, carburante, logistica, visibilità mediatica – che potevano essere impiegati davvero per i gazawi, tramite i canali umanitari già attivi sotto controllo internazionale.

Un elogio auto-celebrativo

E invece no. Dietro questa iniziativa si muove una rete opaca di Ong filo-palestinesi europee, molte delle quali hanno già dimostrato in passato scarsa trasparenza finanziaria e una sorprendente tolleranza verso i metodi e le finalità di Hamas. Tra i coordinatori della missione spicca Mohammad Hannoun, noto attivista arabo-palestinese, naturalizzato italiano, già coinvolto in campagne e raccolte fondi dal contenuto ambiguo. Lo stesso Hannoun che, secondo alcuni, potrebbe essere la medesima persona che, quarant’anni fa, militava nelle file del gruppo terroristico di Abu Nidal, ricoprendo il ruolo di responsabile del “comitato centrale di informazioni”. Il suo coinvolgimento, oggi, appare non solo organizzativo ma strategico. Un chiaro indizio che questa flottiglia non sia affatto un’iniziativa “spontanea” o esclusivamente umanitaria, bensì parte di una ben precisa campagna di pressione politica e delegittimazione di Israele.

E Hamas osserva soddisfatta

Siamo di fronte a un rituale ideologico autocelebrativo, pensato per mostrarsi “buoni” agli occhi dell’opinione pubblica. Con la stessa superficialità di chi si mette una bandiera sul profilo social, questi personaggi salgono su una barca. Cambia il mezzo, non la sostanza. E intanto Hamas osserva soddisfatta, grata per la copertura morale offerta dal fronte “umanitario” europeo. Questa flottiglia non porterà alcun beneficio a Gaza. Non scalfirà la sicurezza israeliana. Non produrrà risultati diplomatici. È un atto dimostrativo, irresponsabile e costoso, che serve solo a chi vuole ribadire pubblicamente la propria appartenenza a un campo “morale” immaginario, costruito contro Israele, e purtroppo sempre più cieco ai fatti.

Paolo Crucianelli

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