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Garlasco, debacle all’inizio delle indagini: quando i tecnici distrussero le prove nel pc di Stasi
La vicenda processuale di Garlasco è occasione, forse irripetibile, per smentire una volta per tutte l’idea che quella tecnico-scientifica costituisca “prova perfetta”. Oltre dieci anni or sono, la prova genetica giocò un ruolo di primo piano nella condanna di Alberto Stasi; oggi, forse fuori tempo massimo, ci si rivolge all’oracolo scientifico per ricavarne nuovi elementi probatori in grado di corroborare un’ipotesi ricostruttiva del fatto del tutto diversa.
Garlasco, la debacle all’inizio delle indagini
Impossibile dimenticare, poi, la débâcle registratasi agli albori delle indagini su quel fatto, allorché condotte scorrette di accesso da parte degli operanti al computer in uso ad Alberto Stasi determinarono la distruzione di gran parte di quanto ivi contenuto. Osservati nel loro complesso, gli snodi cruciali dei procedimenti incentrati sulla prova scientifica testimoniano le insidie che si celano dietro al processo penale del nuovo millennio. Un processo in cui la dimensione tecnica e tecnologica ha assunto un ruolo di primissimo piano, con correlativa mutazione, ormai giunta a pieno compimento e dunque irreversibile, del codice genetico del sapere processuale. Dallo scontro tra epistemologia scientifica e processo penale, infatti, è disceso un modello di decisione fondato essenzialmente su prove indiziarie, sia pure con caratteristiche peculiari: all’intrinseca debolezza della prova critica si aggiunge il problema della valutazione della prova tecnica da parte del giudice.
La strada del ragionamento
Tale valutazione, in effetti, sconta da sempre un paradosso. Segnatamente, si tratta di stabilire se il principio del libero convincimento del giudice possa conciliarsi con uno strumento probatorio che, per sua natura, sfugge alle sue competenze. Tenendo a mente, oltretutto, che, allorquando il giudice s’inerpica in solitudine sulla strada del ragionamento inferenziale su basi tecniche, spesso egli difetta delle cognizioni minime necessarie per evitare di incorrere in massime d’esperienza del tutto illogiche: basti pensare all’assunto, pure patrocinato dalla Cassazione, secondo cui l’accertato uso di applicazioni di comunicazione crittografata autorizza a inferirne che l’interessato è dedito ad attività delittuose.
Le scorciatoie probatorie
La situazione attuale è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale. Se è vero che il giudice non è in grado di maneggiare appieno il sapere impiegato dall’esperto, è altrettanto vero che egli dovrebbe avere il governo degli apporti scientifici forniti dagli specialisti, attraverso la ponderazione, tra l’altro, dell’autorevolezza dell’esperto che trasferisce nel processo penale conoscenze tecniche e saperi di tipo esperienziale. Al fondo, il pericolo che la prova tecnico-scientifica, proprio in ragione della sua non immediata intellegibilità, offra seducenti scorciatoie probatorie al giudice. Innegabile, infatti, l’attrattiva di una prova connotata d’infallibilità, spesso “costruita” già in fase investigativa ed esaltata a livello mediatico, in grado di offrire margini d’errore apparentemente così bassi da poter dirsi pienamente compatibile con la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Il compito arduo
In realtà, la prova tecnico-scientifica è al contrario caratterizzata da una spiccata facilità di alterazione e di contaminazione. Alla luce della ridottissima, se non addirittura nulla, capacità rappresentativa di prove spurie o artefatte, ben si comprende la necessità di una verifica sulla genuinità del suddetto materiale probatorio, onde evitare errori giudiziari dovuti all’impiego di junk science, o per meglio dire junk evidence. In questo contesto, tuttavia, l’assenza di una normativa codicistica in grado di chiarire il rapporto tra chain of custody e modalità acquisitive della prova tecnica, da una parte, e inutilizzabilità, dall’altra parte, fa sì che il “peso” della valutazione ricada inevitabilmente sulle spalle del giudice. Un compito reso ancor più arduo dalla circostanza che la scienza è per sua natura mutabile e in costante divenire, mentre il processo penale mira a esiti connotati da una tendenziale certezza e stabilità.
Il sistema ripudia prove legali
Occorre, allora, rammentare che il sistema processuale, sia pure nel nuovo contesto tecnologico, ripudia le prove legali. Non vi è alcuna equivalenza tra verità scientifica e verità processuale, né la seconda si tramuta automaticamente nella prima. Piuttosto, l’ovvia constatazione dell’utilità dell’impiego di conoscenze tecnico-scientifiche a fini probatori non deve tramutarsi nell’assegnazione di una qualche capacità taumaturgica alla prova tecnica. Evitando, così, che il sicuro fascino della prova scientifica ne offuschi i connaturati limiti.
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