Gaza non può rimanere in mano ad Hamas: Blair può guidare l’Autorità di transizione. E ne ha già parlato con Meloni

Il futuro di Gaza è ancora tutto da scrivere, e il conflitto in corso di certo non facilita neanche un abbozzo di prospettiva in tempi brevi. Ma un dato è certo: Gaza non può rimanere in mano ai terroristi di Hamas, e l’occupazione israeliana non può assumere le forme precedenti alla decisione assunta con coraggio da Ariel Sharon nel 2005. Allora i passi per la pace poggiavano su un lungo e tortuoso percorso avviato a Oslo. Da allora, tensioni, conflitti e intifade non sono mancate, ma fino al 7 ottobre era viva la speranza che alla fine si giungesse a una pace stabile. Ma una strada deve essere percorsa, e – al di là di alcune futuristiche prospettive poco consone alla condizione attuale – resta il fatto che ad oggi Gaza è governata da Hamas.

Hamas ferita ma non distrutta

Gaza è ridotta a un cumulo di macerie, ma la gran parte di tunnel è attiva. Hamas è ferita ma non è distrutta. Il futuro passa inevitabilmente per una fase di transizione, dalla quale deve emergere il programma di ricostruzione ma soprattutto l’azione di contesto post-bellica a ciò che resterà di Hamas e degli altri gruppi terroristici operanti nell’area. Su questo, l’Occidente e Israele hanno le idee chiare. L’ipotesi più concreta è quella di una graduale consegna all’Anp di Abu Mazen, che oggi però non ha né la forza né le risorse per controllare la Striscia e detenere il potere. Fortunatamente, nessuno in questa fase avanza fantasmagoriche ipotesi democratiche che non sono neanche lontanamente immaginabili. Ciò che però sembra altrettanto chiaro a tutti è la necessità della presenza di una forza internazionale che garantisca quella stabilità necessaria affinché si avvii una fase nuova e senza il rischio di ripiombare nel caos. Forza che – anche sotto egida Onu – non può essere solo occidentale, ma deve essere in gran parte costituita dai Paesi arabi, che hanno il dovere ma anche la responsabilità di sanare una lacerazione su cui hanno più di una responsabilità storica e politica.

Una figura di transizione

Allo stesso modo, serve una figura occidentale che abbia la capacità di costruire quella collaborazione tra arabi e occidentali (Israele compreso) necessaria e mancata in passato. Quell’uomo sembra essere Tony Blair, l’ex iconico primo ministro britannico, il protagonista indiscusso di una delle stagioni più entusiasmanti della politica europea, caduto come spesso avviene sotto la clava degli epigoni del giorno dopo. Blair da tempo lavora a un piano per Gaza, conosce bene le fratture, i limiti e anche gli ostacoli che fino ad ora hanno consentito il raggiungimento di qualsiasi risultato. Ha la fiducia di Trump e dell’Amministrazione americana, ha rapporti consolidati nel tempo con la leadership araba e la stima di Israele.

Il dialogo con Meloni

Blair guiderebbe un’Autorità internazionale di transizione per Gaza. Ipotesi nata proprio nel colloquio con il presidente Trump ad agosto. Il riferimento all’esperienza in Kosovo e Timor Est è chiaro, così come è altrettanto evidente che il coinvolgimento dell’Anp potrà avvenire solo in un secondo momento. Da quello che si apprende, Blair avrebbe parlato anche con Giorgia Meloni, vista la chiara volontà italiana sin dall’inizio di giocare un ruolo determinante nel futuro di Gaza e del Medio Oriente, soprattutto in relazione ai nostri partner. Ora bisogna attendere non tanto la fine del conflitto, ancora lontana, quanto l’ufficializzazione del progetto, partendo proprio dall’adesione dei Paesi arabi.