Per gentile concessione degli autori e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito un ampio stralcio della prefazione di Stefano Ceccanti e Isabella Nespoli a “La forza mite del riformismo, Riflessioni di un cattolico liberale sulla crisi di inizio secolo” (Il Mulino), saggio dedicato alla figura di Giorgio Armillei che vede tra gli altri anche i contributi di Carlo Fusaro, Sergio Fabbrini e monsignor Vincenzo Paglia.
Chi, come Giorgio, si era formato nell’associazionismo cattolico già verso la fine degli anni 70, entrando in università negli anni 80, è stato anzitutto culturalmente, e forse anche umanamente, figlio di una doppia frattura, ecclesiale e politica, strettamente intrecciate tra di loro, nonché di una grande tragedia politica nazionale: il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, nella primavera del 1978. La frattura ecclesiale si manifesta nel convegno «Evangelizzazione e promozione umana» del 1976, che rivelò una divaricazione marcata nella Chiesa italiana, successivamente formalizzata da un lato nella cultura della mediazione, tesa a sviluppare con coerenza le intuizioni conciliari, e dall’altro nella cultura della presenza, una prospettiva identitaria, disposta a bloccare il processo di «aggiornamento», nel timore che il suo avanzamento potesse disgregare l’istituzione.
Questa linea di frattura aveva già dato origine a nuove realtà ecclesiali, nate per scissione, rispetto a quelle tradizionali, spintesi in avanti sulla strada del concilio: Comunione e Liberazione rispetto all’Azione cattolica, gli Scout d’Europa rispetto all’Agesci, il Mcl rispetto alle Acli e così via. La frattura politica fu segnata nel 1975 dall’affermazione di Benigno Zaccagnini e della leadership di Aldo Moro nella Democrazia Cristiana, per la prima volta attraverso l’elezione diretta del segretario da parte del Congresso anziché tramite le mediazioni del Consiglio nazionale. L’intreccio di queste due fratture è evidente, perché almeno due delle tre correnti di sinistra della Dc erano legate in modo abbastanza diretto a espressioni dell’associazionismo cattolico «conciliare»: i morotei alla Fuci e al Meic, Forze nuove alle Acli e alla Cisl; anche la terza corrente, Base, la più politica, aveva legami con questo mondo cattolico. Qual è stata in tutto questo la peculiarità della Fuci della generazione di Giorgio?
Al di là della partecipazione delle singole persone a questo o a quel convegno europeo o internazionale, agli scambi bilaterali con altri movimenti universitari, ricordiamo che Giorgio fu particolarmente attivo nell’incontro con la Jec (Juventud estudiante católica) spagnola che si tenne a Madrid e a Roma nel 1984. Come tutti gli altri dirigenti Fuci dell’epoca, Giorgio era fermamente convinto dell’importanza strategica di quest’apertura e vi contribuì con impegno de-terminante. Ripetiamo: la cornice internazionale fu in Fuci davvero costitutiva dell’impegno culturale degli anni ’80, allorché il resto del mondo cattolico organizzato rimaneva in sostanza fermo a due sindromi speculari: per gli uni, l’idea di dover ripetere staticamente l’esperienza Dc, vista come un’anomalia positiva e insostituibile, per gli altri l’idea di doverla contestare, finendo però con il rimuovere insieme ad essa anche il portato di una seria e realistica cultura di governo. Pseudo-profetismo antagonista o all’opposto fuga verso visioni intimiste non furono invece mai moneta corrente nella Fuci.
In questo senso l’uso della leva referendaria proposta nel Congresso di Bari del 1989 con l’intento di superare lo stallo riguardante le riforme elettorali e incentivare una ristrutturazione in senso bipolare del sistema dei partiti, rappresentò il coronamento di questo impegno culturale di sprovincializzazione, cui si accompagnò il protagonismo di fucini ed ex fucini nelle raccolte di firme e nelle campagne referendarie del 1991 e del 1993. Il contributo specifico di Giorgio in questo sforzo collettivo fu quello di inquadrare con equilibrio il ruolo del riformismo socialista, quale si era espresso in particolare in «Mondoperaio» dalla fine degli anni 70. La lettura che Giorgio promuoveva era del resto in sintonia con quella di Pierre Carniti, che aveva anch’egli seguito da vicino l’evoluzione del sindacalismo cattolico francese e che aveva contribuito a co-fondare il nuovo Partito socialista. È indiscutibile che questa attenzione specifica, così tenacemente coltivata da Giorgio, aiutò a evitare la demonizzazione acritica del riformismo socialista, come stava accadendo in larga parte della sinistra cattolica e post-comunista.
Se gli scritti di Giorgio qui presentati coprono essenzialmente l’ultimo decennio della vita italiana ed europea, l’intelligenza critica e la forza di positiva mediazione che essi dimostrano sono il frutto di anni di ricerca e di impegno intellettuale e associazionistico, segnati da una coerenza che, dalla Fuci al Landino, nulla ha scalfito, nemmeno la sconfitta referendaria del 2016 della riforma costituzionale renziana, sulla quale tanto si era contato. Giorgio non ha mai cessato di chiedersi, in dialogo con il più ampio spettro possibile di interlocutori, quale cammino fosse praticabile per poter realizzare le riforme necessarie per l’Italia. Siamo convinti che il suo pensiero, nutrito di realismo e idealismo allo stesso tempo, possa rappresentare un contributo prezioso per le nostre scelte future, in particolare per il cantiere di un riformismo democratico, quello che Salvati e Dilmore chiamano oggi liberalismo inclusivo. Il grazie che dobbiamo a Giorgio per il suo contributo intellettuale ed umano non sembra esaurirsi.
