Giorgio Forattini, la matita che faceva più paura di un editoriale

Si dice che una sua vignetta valesse più di un fondo di prima pagina. Giorgio Forattini riusciva a condensare ciò che i commentatori impiegavano colonne intere a spiegare. La sua era una satira chirurgica, implacabile, ma anche giocosa e surreale, capace di smascherare l’ipocrisia del potere con un tratto che sembrava una carezza e invece era un graffio. Le sue vignette hanno raccontato l’Italia dagli “anni di piombo” alla Seconda Repubblica, attraversando decenni di illusioni, scandali, trasformismi e ideologie. Con il suo spirito corrosivo e la sua indipendenza, non fu mai “di partito”. Aveva un debole per il paradosso e un’ironia che non risparmiava nessuno.

Quando disegnava Andreotti, lo faceva con la stessa ferocia con cui ritraeva Craxi, Spadolini o D’Alema. Eppure la reazione non era mai la stessa. I democristiani – abituati da decenni al sarcasmo, alle caricature, alla commedia dell’ambiguità – sorridevano, brontolavano, ma incassavano. I comunisti no. L’ironia, specie se rivolta al proprio campo, era vista come un affronto. Non era solo una questione politica: era culturale. La satira, per chi crede in un’idea totalizzante è percepita come un’eresia. Come si può ridere del Bene? Come si può scherzare sul Partito? Celebre resta il caso di Massimo D’Alema, che da Presidente del Consiglio reagì furiosamente a una vignetta in cui Forattini lo ritraeva intento a “sbianchettare” gli elenchi del dossier Mitrokhin.

Una scena satirica non priva di verità simbolica: il gesto di chi vuole “ripulire” la memoria, di chi teme che la storia mostri troppe ombre. La sua matita colpiva a destra e a sinistra, ma quando toccava la sinistra – quella che amava definirsi “intellettuale”, “aperta”, “progressista” – il colpo sembrava più doloroso. Forse perché smascherava una fragilità più profonda: quella di un mondo che si percepiva come portatore di valori assoluti, e quindi intoccabile. A proposito del giornale che lo rese famoso, amava dire: “L’abbiamo fatta noi Repubblica. Lui l’ha fondata, io l’ho disegnata”. Non era presunzione, ma un riconoscimento del potere dell’immagine. Le sue vignette non accompagnavano gli articoli: li completavano, li commentavano, talvolta li superavano. Quando compariva la sua firma, il lettore sapeva che avrebbe trovato una verità sintetica, crudele, ma più chiara di mille parole.

Oggi, riguardando le sue vignette, si ritrova la storia d’Italia, ma anche un ritratto impietoso della nostra incapacità di accettare il ridicolo. Perché il ridicolo, come la satira, è una forma di verità. E Forattini lo sapeva: non c’è libertà senza il diritto di far ridere. Né cultura, se non si sa ridere di se stessi.