Giorgio Napolitano, il disallineato. La frattura con Berlinguer, la solitudine comunista e quella figura così complessa

La frattura tra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano «evolverà nel corso degli anni Ottanta in quella tra Napolitano e il comunismo». Nella corposa biografia dell’ex Presidente della Repubblica scritta da Gregorio Sorgonà (“Giorgio Napolitano”, Salerno editrice) a un certo punto compare la frase menzionata, ed è forse la chiave giusta e mai così chiaramente esplicitata per un’interpretazione della singolare figura di uno dei massimi dirigenti del Pci: senza mai mettere in discussione la sua appartenenza a quel partito, pure Napolitano ne oltrepassava continuamente la sua politica, la sua prospettiva ideale, la sua collocazione internazionale. La lettura dell’azione e del pensiero di Napolitano, secondo lo schema di Sorgonà, è dunque quella di un suo progressivo “disallineamento” che pure resta sempre dirigente di primissimo piano nelle molteplici funzioni ricoperte nel partito, dove si occupò praticamente di tutto, dall’organizzazione all’economia, dalla cultura alla politica internazionale (soprattutto).

La sensazione che si ricava è che la sua fu più un’avventura individuale piuttosto che un’attitudine da “capocorrente”, almeno fino alla fine dell’esperienza storica del Pci (1989). E ancora più dopo la caduta del Muro, Napolitano mostrò di voler seguire un proprio percorso, nella vita istituzionale, da presidente della Camera, e in quella europea, prestigioso europarlamentare, riassumendo le due strade nel fondamentale tratto finale nel “novennato” al Quirinale. Si potrebbe dunque parlare di una sorta di solitudine, non si sa quanto effetto caratteriale o piuttosto conseguenza di una tradizione comunista più che ostile alla formalizzazione delle correnti.

Naturalmente la biografia è completissima, dalla gioventù nella sua Napoli fino agli ultimi anni della presidenza della Repubblica, un periodo che per ovvie ragioni è ancora tutto da studiare ponendosi lontano dalle polemiche contingenti. E infatti i capitoli sul Napolitano degli anni Settanta e Ottanta sono senz’altro i più ricchi e, come dire, i più interessanti per analizzare la battaglia interna al Pci, il ruolo della “destra” poi chiamata la corrente “migliorista”, la contrapposizione tra lui e Berlinguer, che a un certo punto fu – pur senza rovinare il rapporto personale – davvero non ricomponibile. Conoscendo benissimo quella vicenda, di recente Giuliano Amato ha detto che «la storia d’Italia sarebbe stata diversa se Giorgio Napolitano non fosse rimasto in minoranza e se la sua prospettiva fosse stata condivisa da un uomo di grande fascino ma privo di vedute per il futuro», cioè Berlinguer. Certo, erano due concezioni molto diverse.

La rottura diventa piena con “l’ultimo Berlinguer”, quello dell’alternativa (detestando Craxi!) e della “questione morale” posta nella famosa intervista del segretario del Pci a Scalfari che lasciò «sbigottito» Napolitano. «Su quella base non si poteva costruire nessuna politica», annotò anni dopo il leader della “destra”. Egli sapeva in cuor suo che l’approdo verso la socialdemocrazia – questo era il suo obiettivo di fondo – era “troppo avanti” rispetto non solo alla “base” del partito ma all’insieme così imponente e in fondo monolitico del gruppo dirigente. Di qui una cautela che molti hanno interpretato come timore di dare battaglia aperta. Quel che è sicuro è che la storia ha riconosciuto molte delle ragioni di Giorgio Napolitano, una figura più complessa di quanto la vulgata dice. E questo libro di Gregorio Sorgonà aiuta appunto a fare luce su una personalità ricca come poche, nella storia italiana.