Da venticinque anni, le “Giornate di Bertinoro per l’economia civile” sono laboratorio di idee e luogo di confronto tra economisti, imprenditori, amministratori e accademici, un punto di riferimento per il Paese tanto più oggi che le attese sul tema dell’economia sociale sono elevate: l’Action Plan lanciato dalla Commissione Europea, la successiva raccomandazione che sollecita gli Stati membri a dotarsi di piani nazionali, il Governo che nei prossimi mesi deve avviare il dibattito su quello italiano, città e territori che hanno iniziato a redigere apposite programmazioni di economie sociale. Ne parliamo con Paolo Venturi, economista e direttore di Aiccon, centro studi sull’economia sociale promosso dall’Università di Bologna.
Da un quarto di secolo sui temi dell’economia sociale. Come si spiega la longevità delle Giornate?
«È l’evento sull’economia sociale più longevo d’Italia. È la durata non è casuale: proviamo a leggere la realtà con le lenti dell’economia civile, non con un approccio settoriale o di categoria, ma con una visione integrata dello sviluppo economico, sociale e soprattutto umano. Credo che questa sia la chiave del successo: la capacità di restare fedeli a una visione, pur evolvendo ogni anno sulla base dei temi d’attualità».
Economia civile, economia sociale… espressioni spesso usate come sinonimi.
«Sono concetti diversi, ma connessi. L’economia sociale indica quelle organizzazioni che condividono tre tratti fondamentali: hanno uno scopo d’interesse generale, non di mero profitto; vivono in relazione con i territori e le comunità, reinvestendo parte rilevante del valore prodotto nell’impresa stessa o nel contesto locale; operano secondo logiche di partecipazione e governance inclusiva, spesso democratica, come nel caso delle cooperative. L’economia civile è il paradigma: il modello tripolare fondato su Stato, mercato e comunità e che nasce nel Settecento con Antonio Genovesi. L’economia sociale rappresenta l’insieme delle istituzioni che rendono possibile, concretamente, quel paradigma».

Quanto misura il mondo dell’economia sociale in Italia?
«È vastissimo: oltre 428 mila organizzazioni che impiegano quasi 1,9 milioni di persone, pari a circa il 9% delle imprese e dell’occupazione nazionale, per un valore generato di 93 miliardi di euro. Ma il valore dell’economia sociale non sta nei numeri: è nel modo in cui influenza positivamente l’economia nel suo complesso, contribuendo alla coesione, al welfare, alla cultura».
L’Europa sembra essersene accorta ancor prima che l’Italia.
«In Italia siamo pionieri dell’economia sociale, ma senza l’Europa probabilmente questa prospettiva non sarebbe entrata nell’agenda politica. Bruxelles ha detto chiaramente che l’economia sociale è fondamentale per tenere insieme sviluppo e coesione, per questo ha chiesto agli Stati membri di dotarsi di un piano nazionale».
La seconda Commissione Von der Leyen sembra meno motivata della prima sul punto.
«Il rischio è relegare l’economia sociale ad alcuni ambiti, pur importanti, come l’inclusione e il lavoro. Ma sarebbe un errore grave rinunciare a un’operazione che può avere un respiro ben più ampio. Siamo in un momento storico paradossale: abbiamo ricette per le transizioni ecologiche, sociali, digitali, ma fatichiamo a renderle concrete. L’economia sociale è indispensabile per farlo, perché aggiunge al binomio Stato-mercato quel terzo pilastro che è la comunità».
E il Governo nazionale a che punto è sulla redazione del Piano nazionale?
«Il Governo ha individuato una delega sull’economia sociale e un gruppo di lavoro presso il MEF, coordinato dalla sottosegretaria Albano, che dovrebbe concludere il piano entro l’autunno. A quel punto, si aprirà la fase della pubblica consultazione».
Intanto, ci sono città che stanno redigendo i propri piani per l’economia sociale.
«Si sta costruendo un mosaico che tiene insieme Europa, Stati e territori. A livello metropolitano, città come Torino e Bologna hanno già avviato i propri piani locali. A livello regionale, la più avanzata è l’Emilia-Romagna, che ha affidato al vicepresidente la delega all’economia sociale. È un segnale politico forte».
Oggi crescono le economie della difesa e della sicurezza. C’è spazio per questa dimensione nello sguardo dell’economia sociale?
«Non ho difficoltà a ricondurre il tema della sicurezza nell’alveo dei beni comuni. La sicurezza non si garantisce solo con il controllo o il presidio, ma con la vita sociale: con comunità vive, coese, capaci di generare fiducia. È chiaro che oggi, per motivi geopolitici, si investa molto in difesa. Ma non possiamo pensare che bastino i recinti o gli eserciti a renderci sicuri. La sicurezza postula anche cura, e la cura non si costruisce solo con le politiche, ma anche con economie adeguate, radicate nei territori, inclusive, generative».
