L'intervista
Giulio Meotti: “Uno Stato palestinese scatenerebbe lo tsunami islamista. USA e UE sarebbero vassalli dei regimi”
Il giornalista del Foglio, esperto di politica estera, ricorda che “Israele è l’unico cuscinetto occidentale”. E mette in guardia dall’Iran: “Può piegare il mondo in ginocchio riducendo la produzione di petrolio”
Il Parlamento europeo ha approvato la seguente risoluzione: «Gaza al limite: l’azione dell’Ue per combattere la carestia, l’urgente necessità di liberare gli ostaggi e procedere verso una soluzione a due Stati». Ne parliamo con Giulio Meotti, giornalista del Foglio ed esperto di politica estera.
La causa del conflitto è davvero da ricercarsi nell’assenza di uno «Stato palestinese»?
«Non è mai stata quella. La causa del conflitto è la presenza ebraica in una terra che vorrebbero soltanto arabo-islamica e dove gli ebrei, al massimo, possono essere “dhimmi”. Il pogrom del 1929 a Hebron, una specie di mini 7 ottobre, avviene vent’anni prima che nascesse Israele e quarant’anni prima che Arafat creasse l’Olp. 1929, 1948, 1967, 1973, prima e seconda Intifada, Intifada dei coltelli, 7 ottobre e domani un altro massacro: sono le date della Grande Guerra per distruggere Israele, insopportabile enclave ebraica e occidentale nella Ummah».
Se mai uno «Stato palestinese» dovesse sorgere sulle colline della cosiddetta «Cisgiordania» e a Gaza, quali sarebbero le conseguenze per Israele e il Mediterraneo?
«Sarebbe un disastro. Sarebbe il ritorno ai “confini di Auschwitz” come Abba Eban definì quelli del 1948. Chiunque sia stato in Cisgiordania ha potuto vedere che Israele sarebbe indifendibile se nascesse lì uno Stato palestinese col controllo dei confini, dello spazio aereo, del Giordano. Da Netanya al muro sulla linea del 1967 ci sono appena 14 chilometri. Tutti i voli internazionali da e per l’aeroporto di Tel Aviv possono essere interrotti in un attimo, come è successo dopo il 7 ottobre, e Israele che si ritrova una sola via di uscita: il Mediterraneo, dove dal 1948 vogliono buttare gli ebrei. Ma le conseguenze sarebbero disastrose anche per noi, che dormiamo sonni tranquilli: nascerebbe un avamposto islamico sul Mediterraneo, con tutte le conseguenze per l’Islam politico e la regione più importante del mondo in termini di sicurezza. Se Israele dovesse oggi sparire, l’Iran estenderebbe la sua influenza su tutto il Mediterraneo. Teheran potrebbe mettere il mondo in ginocchio riducendo la produzione di petrolio. La prima a cadere sarebbe la Giordania, che gli islamisti disprezzano a causa dei legami di re Abdallah con l’Occidente. L’Iraq sarebbe assorbito dallo “Shiastan”. E nulla impedirebbe all’Iran e agli islamisti di dichiarare guerra all’Arabia Saudita e ai Paesi arabi moderati. Gli islamisti assumerebbero il controllo di tutti i corsi d’acqua, compreso il Golfo Persico e il Canale di Suez. A quel punto, gli Stati Uniti e l’Europa sarebbero i vassalli dei regimi islamisti. Israele è l’unico cuscinetto occidentale contro uno tsunami islamista che si espanderebbe fino all’Europa. In un attimo di sincerità, il cancelliere Merz lo ha detto: “Israele fa il lavoro sporco per noi”».
Come giudicherebbe un’eventuale estensione della legittima sovranità israeliana sulla Giudea e la Samaria («Cisgiordania»), o almeno su una parte di essa?
«Spetta a Israele deciderlo e a Israele soltanto valutare cosa farne in termini di sicurezza, demografici e politici. Se ne discute da mezzo secolo. Sicuramente gli insediamenti non sono un ostacolo alla pace, ma alla guerra. Tel Aviv, dove vive un quarto della popolazione israeliana, è protetta dagli insediamenti sulle prime colline della Samaria e protette al “muro”, queste a loro volta sono protette dagli insediamenti oltre il muro, gli hard core, e così via. È come un domino: tira giù un pezzo e crolla tutto il regno. Il disimpegno israeliano da Gaza nel 2005 lo dovrebbe avere insegnato anche ai più imbecilli. Dal Libano del sud a Oslo a Gaza, ogni disimpegno ha portato alla guerra».
Dopo quella dell’ebreo «sradicato», abbiamo una nuova caricatura antisemita: l’ebreo «colono». Ma chi sono veramente i «coloni»?
«Ce ne sono di tutti i tipi: haredim, religiosi moderni, mistici, nazionalisti, borghesi in cerca di una casa, pragmatici, oltranzisti, è un decimo della popolazione israeliana, tutti accomunati dall’idea che quella sia la terra dove è nato Israele (tutta la storia ebraica e anche nostra di giudeo-cristiani nasce lì, oltre le linee del 1967, Gerusalemme vecchia compresa) e dove gli ebrei hanno pagato un prezzo altissimo in termini di sicurezza e vite umane. Oggi, del conflitto, i coloni sono il capro espiatorio: “Se soltanto non ci fossero i coloni…”. Suicida e a questo punto colpevole illusione: Hamas il 7 ottobre ha ucciso anche tanti pacifisti, la brava gente di sinistra che voleva i due Stati e portava la gente di Gaza a curarsi in Israele. Il terrorismo islamico non rilascia salvacondotti, non conosce “ebrei buoni”».
Possiamo considerare la volontà di «decolonizzare la Palestina» come un desiderio di sterminio?
«Sì, ammantata di wokismo e newspeak. Nel 2025 non puoi sterminare gli ebrei richiamandoti all’antisemitismo classico, almeno non in Occidente, non ancora. Così ci provano in nome della “giustizia sociale”, di Edward Said, della lotta neorazzista, dell’islamogoscismo, con gli utili idioti dal fiume al mare».
Da due anni assistiamo a una fiammata di odio antiebraico. L’argine morale rappresentato dalla Shoah è crollato. Culturalmente parlando, cosa è andato storto?
«“I tedeschi non perdoneranno mai gli ebrei per Auschwitz”, diceva uno psichiatra. Israele, la sua stessa presenza e lotta per la sopravvivenza, hanno riattivato la belva antisemita. Finalmente gli antisemiti possono tornare a essere antisemiti, ma senza vergognarsi: la sinistra in nome del terzomondismo, certa destra in nome dell’odio antioccidentale, certi cristiani del Golgota riattivato, il deicidio che riprende col genocidio… Non sopportano questo piccolo Stato occidentale che si difende, che resiste, che reclama una storia e identità, che rifiuta di essere assorbito nel Villaggio Globale».
In un suo libro di alcuni anni fa, L’Europa senza ebrei, profetizzava un vecchio continente privo di ebrei entro il 2050. Vista la situazione, quella data non è ottimistica?
«La situazione è anche peggiore di quando scrissi il libro. Nell’ultimo mese abbiamo visto ebrei attaccati a una veglia per gli ostaggi israeliani in Germania, turisti israeliani aggrediti in Olanda, auto ebraiche deturpate in Francia, ebrei aggrediti in Grecia e a Venezia, case ebraiche e sinagoghe vandalizzate in Inghilterra, musicisti ebrei cacciati dai ristoranti in Austria. La storia ebraica europea è finita, non so se nel 2030 o 2040 o 2050, non sarà ovunque alla stessa velocità (Bruxelles o Malmö o Marsiglia finiranno prima di altre), ma nei prossimi anni sarà sempre peggio: come nella Shoah, gli ottimisti resteranno e proveranno a entrare in uno stato di dhimmitudine, i pessimisti se ne saranno andati. Ma la vera domanda è un’altra: che ne sarà allora dell’Europa senza il suo canarino nella miniera?».
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