Giurare fedeltà agli ideali della propria gioventù, l’inerzia della sinistra che non fa i conti col mondo che cambia

Caro Claudio,
doveva essere la primavera del 1980 quando mi venne comunicato che dovevo guidare una delegazione della FGCI in Unione Sovietica, ospiti del Komsomol, l’organizzazione giovanile (si fa per dire visto che i dirigenti che incontrammo avevano tutti intorno ai 50 anni) del Partito Comunista. Si sarebbe parlato di problemi dell’informazione, vale a dire della “propaganda”. Il Komsomol era una struttura con milioni di iscritti, un proprio quotidiano e si configurava come un’anticamera per successivi incarichi nel Partito degli adulti. O un parcheggio per dirigenti capaci, ma non abbastanza. Obiettivo del viaggio: far finta di essere amici, ma non troppo.

Intanto il contesto. Berlinguer aveva già rilasciato la famosa intervista a Pansa in cui si era detto più sicuro al riparo dell’ombrello della NATO, cioè dell’alleanza militare nata proprio per fronteggiare l’Est socialista. Inoltre l’anno prima del nostro viaggio, nel 1979, l’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan e la posizione del PCI era stata di netta condanna. Quindi il viaggio non poteva che svolgersi all’insegna di una sana ipocrisia. Loro si dichiaravano dispiaciuti per il dissenso manifestato dai compagni italiani, ma fiduciosi del fatto che il comune ideale socialista avrebbe ricomposto le differenze temporanee, noi con parole prudenti ma ferme facevamo presente che non si trattava di dissenso temporaneo, ma di una visione diversa della democrazia e del pluralismo politico.

Siccome si facevano almeno un paio di brindisi al giorno, i discorsetti si ripetevano sempre uguali fra sorrisi e auguri di lunga vita ai reciproci Paesi. Il problema principale, oltre a quello di destreggiarsi con le parole negli infiniti tranelli che la dialettica comunista mi gettava sul piatto in continuazione, fu quello di reggere l’alcool. Passammo un paio di giorni in Georgia, un Paese bellissimo soprattutto in quella stagione e il cui clima mi ricordava molto l’Italia, e dove si produceva un ottimo vino bianco. Fummo accolti trionfalmente in un paesino dove ancora viveva la madre di un partigiano russo caduto in Italia. Per ricordarlo fra l’altro i georgiani regalarono a un comune toscano un orso, che per molti anni dovette essere nutrito e curato. Tenemmo i discorsi di prammatica sulla resistenza, il contributo della Russia sovietica alla lotta contro il nazismo e infine sull’amicizia fra i nostri popoli. E poi a tavola, dove restammo per diverse ore con una serie ripetuta di brindisi e discorsi. La prova da sostenere era quella di bere l’intero contenuto di un grosso corno, che fungeva da contenitore, nel corso di un unico brindisi. Di brindisi ce ne furono una decina. Più la vodka. Forse pensavano di fiaccarmi, ma non potevano sapere delle mie origini bergamasche, terra di alpini e di grandi bevute considerate prove di virilità. Insomma tenni la posizione, nonostante tutto, difendendo l’onore dei comunisti italiani.

Nel breve briefing prima della partenza, oltre alle raccomandazioni politiche del caso, mi era stato ripetuto più volte di respingere, seppur cortesemente, ogni offerta di regali di vario tipo. Il PCI, dopo il successo elettorale del ‘76, che aveva determinato anche l’incasso di una bella fetta di finanziamento pubblico, aveva cominciato a svincolarsi dal finanziamento che regolarmente dal dopoguerra gli veniva corrisposto dal PCUS e noi giovani comunisti dovevamo fare lo stesso. In effetti più volte mi venne ripetuta la formula di rito: “Se i compagni italiani hanno bisogno di qualche cosa per la loro attività non esitassero a chiedere”. Era chiaro che se, dopo tutti i discorsi in cui cercavo di prendere le distanze, avessi accettato, la nostra credibilità sarebbe stata pari a zero.

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Caro Chicco,
in queste chiacchierate stiamo parlando di “come eravamo”, con molto rispetto verso il mondo da cui veniamo, che in fondo è rispetto per noi stessi e la nostra storia. Peraltro siamo entrambi consapevoli che i ricordi sono filtrati dall’evoluzione successiva delle nostre idee, e quindi, forse, tendiamo oggi ad accentuare nelle ricostruzioni gli aspetti critici o a forzare certi episodi. Insomma – perché non dircelo – anche noi possiamo restare prigionieri di alcuni dei tanti bias della memoria. Da quello della coerenza, che ci fa adattare il passato a come la pensiamo oggi, a quello di conferma, che seleziona solo i ricordi utili a sostenere le nostre idee attuali, alle informazioni fuorvianti, quando cose apprese successivamente si infilano nei ricordi come se ci fossero sempre state, alla confabulazione, che serve a riempire i vuoti della memoria con dettagli plausibili ma falsi. E così via. La memoria – come è noto – è sempre un racconto, e in quanto tale un illusorio specchio deformante.

Ma che dire di quelli che pretendono di “bloccare” la memoria idealizzandola, trattando il passato come un moloch indistruttibile? Ancora qualche giorno fa ho sentito ripetere a Bersani una famosa frase detta da Berlinguer in un’intervista mi pare del 1982 (“Sono rimasto fedele agli ideali della mia gioventù”), concetto che a sentirlo pronunciare suona nobile, accarezza gli animi, e colloca subito chi lo espone enfaticamente dalla parte giusta, dei “coerenti”, delle persone tutte d’un pezzo. Che cosa c’è più bello che essere fedeli a qualcuno o a qualcosa? Quando io dico che sono da sempre fedele a mia moglie, in molti (certo non tu, ah ah!!) mi dicono ehilà che bravo, e che bravi! Ma mia moglie ed io il nostro rapporto lo rinnoviamo ogni giorno, perché insieme facciamo il possibile per cambiare. Oggi siamo diversissimi da quando ci conoscemmo decenni fa, perché cerchiamo sempre di esplorare il mondo che ci circonda, siamo incuriositi e disponibili a capirlo, non ci verrebbe mai in mente di dire che 45 anni orsono tutto era più bello di ora (se non per il fatto, certo non trascurabile, che le nostre schiene funzionavano meglio). Se non facessimo questo sforzo quotidiano di aggiornamento (a parte che uno dei due avrebbe mandato a quel paese l’altro, ma da mo’…), forse potremmo biologicamente sopravvivere per un po’, ma saremmo già morti, nella sostanza.

E dunque, Chicco, andiamo al punto che fa da sfondo al nostro piccolo carteggio. Restare “fedeli agli ideali” della propria gioventù è un gigantesco, orribile imbroglio. È pulsione di morte, è pigrizia intellettuale, è rinuncia al compito più alto che abbiamo come esseri pensanti, cioè quello di evolvere costantemente, non smentendo gli altri, ma piuttosto smentendo noi stessi. Che è la cosa più sorprendente, onesta e liberatoria da fare, in tante occasioni. Figuriamoci quando una storia politica – come quella di cui parliamo – è finita con inappellabili sentenze di condanna. Ma allora perché nel 2025 un importante dirigente della sinistra va a prendersi applausi nelle feste dell’Unità e gira da protagonista per i talk show, ripetendo questa fesseria? Semplice. Perché quella dei presunti – presuntissimi, falsi, artefatti ideali cui rimanere fedeli è la sola, possibile droga ideologica da distribuire al famoso “popolo della sinistra”, sempre in cerca di un suo ubi consistam e di qualche nemico da combattere. Vendendo la patacca dei “valori”, i dirigenti della sinistra si garantiscono il posto e i militanti si tengono le loro illusioni. Mentre il mondo va avanti per conto suo.

C’è un episodio di 30 anni fa che spiega bene il tutto e ha ancora una fenomenale attualità. Eravamo in piazza Santi Apostoli dopo la vittoria dell’Ulivo nelle elezioni nel 1996, a festeggiare quello che si annunciava come l’inizio di una nuova era, quella della sinistra finalmente al governo, quando, alla fine del comizio, un’anziana compagna si avvicina a D’Alema e gli fa: “Massimo, che bello, abbiamo vinto. Ora si che potremo fare una grande, vera opposizione!”. Ora, sappiamo come finì quella breve stagione. il punto è che 30 anni dopo la sinistra sta sempre allo stesso punto. I dirigenti della sinistra lisciano il pelo ai militanti, dicendogli che va custodito il finto sacrario degli ideali, che bisogna essere per principio sempre contro qualcosa e qualcuno, ma non gli insegnano che la sinistra deve cambiare radicalmente, e che l’unica ossessione di una classe dirigente che voglia dirsi tale dovrebbe essere quella di governare un mondo che cambia a velocità vertiginosa.