Giustizia, la deriva panpenalista fa crollare ogni equilibrio. Quella sconosciuta cultura garantista

Dalle colonne de Il Sole 24 ore i professori Vittorio Manes e Nicolò Zanon, in un articolo dal titolo evocativo (Il primato perduto della libertà individuale), hanno magistralmente sottolineato la dilagante deriva panpenalistica che sta travolgendo il diritto primario della libertà. Libere interpretazioni denotano la tendenza a usare l’arma contundente del diritto penale per fronteggiare una collettività convinta che il crimine imperversi.

Il nostro paese è tra i più sicuri del pianeta. Le statistiche dicono che il numero di tutte le tipologie di reati è in costante diminuzione e che il tasso di recidiva crolla per i condannati ammessi ai benefici penitenziari, i quali, potendo reinserirsi nella collettività, scelgono, in stragrande maggioranza, di condurre un’esistenza migliore di quella infernale assicurata dal crimine. Malgrado ciò, si alimenta la narrazione di una società insicura e corrotta, dove dominano delinquenti di strada e consorterie occulte che si spartiscono la ricchezza. Si determina in definitiva il fenomeno patologico della over-criminalization, ossia della punizione da parte del legislatore di qualunque contegno che crei anche solo disagio ai “buoni” e, dal lato della giurisprudenza, della censura di comportamenti leciti, diversi da quelli espressamente incriminati dalla legge, ma ritenuti in qualche modo limitrofi, immorali o non opportuni.

E cosi, qualsiasi contatto informale tra privati e pubblica amministrazione viene assimilato a un turpe patto collusivo, la legittima attività di lobbying viene equiparata alla corruzione, i medici da eroi vengono nuovamente gettati nel girone dei dannati. Si coniano immagini suggestive: il comitato d’affari, il medico killer, cinico e insensibile, l’amministratore pubblico che cementifica la città a favore dei ricchi, un paese preda del crimine. Anche mediante queste suggestioni si giustifica l’uso sproporzionato di mezzi investigativi e misure cautelari quali intercettazioni a tappeto, perquisizioni all’alba, sequestri e arresti preventivi. Sempre in questa logica si legittima la distruzione per via mediatica delle esistenze altrui, elevando la cronaca a diritto tiranno capace di schiacciare qualsiasi altra prerogativa della persona, comprese libertà personale, inviolabilità della vita privata e presunzione d’innocenza.

Si può pubblicare tutto, si può crocifiggere chiunque a una frase al telefono o a un WhatsApp. Tale mancanza di equilibrio genera ovviamente perversi effetti collaterali: opere pubbliche che si fermano, rigenerazioni urbane al palo, abbandono di molte specializzazioni a rischio da parte dei medici, immigrati visti come pericolosi invasori portatori di disordine, paralisi, decrescita infelice ed emarginazione. La proporzione impone di usare gli strumenti d’indagine con misura e di attivare la macchina giudiziaria quando si è davvero in presenza di notizie di reato che giustificano interventi dirompenti. Se invece si agisce pensando di dovere debellare astratti fenomeni allora il rischio di una società rigida e illiberale è dietro l’angolo.

Così come una stampa che disinforma l’opinione pubblica con titoli ad effetto fa a brandelli vite e induce sconcerto in lettori convinti di essere davanti a furfanti incalliti quando giungono esiti assolutori dopo anni di mostrificazione delle persone. Porre mano a questa pericolosa deriva, anche attraverso un’opera di diffusione di un’autentica cultura delle garanzie, è urgente. E attenzione perché «gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura» (cit.).