Giusto vietare l’abaya nelle scuole francesi? No, così si rischia la nascita di un populismo in salsa laicista

Nel Sì&No del Riformista, spazio al dibattito sulla scelta del governo francese di vietare l’abaya nelle scuole. Il Sì di Alessio De Giorgi, direttore web del nostro giornale, secondo il quale “la scuola è e deve continuare ad essere una sorta di campo neutro di gioco, in cui si lasciano a casa i fondamentalismi, gli integralismi e per l’appunto le polarizzazioni”. Contrario Filippo Campiotti, Italia Viva che punta i riglettori sulla laicità: “Deve significare che ognuno sia libero di credere e di esprimersi come ritiene, che ognuno possa essere ciò che è, fino in fondo”.

Di seguito il commento di Filippo Campiotti

A destare ben più di una perplessità non è tanto la misura in sé, che senz’altro a seconda delle occasioni potrebbe trovare motivazioni più o meno ragionevoli e adeguate su cui poter discutere, ma è la motivazione del caso specifico fornita dal ministro ad essere preoccupante e inquietante. “Le scuole della Repubblica sono costruite intorno a valori forti, in particolare la laicità. Non si dovrebbe essere in grado di determinare la religione di un alunno quando si entra in una classe”. In queste poche parole si svela il nocciolo del problema sociale in cui la Francia si ritrova. Che lo Stato in un contesto educativo e culturale annulli l’integrità delle persone e pretenda di mettere un “tappo” a una parte costituente di quel che sono è l’aspetto più terrificante e preoccupante della mentalità laicista che sempre più avanza e vede le religioni e le diversità non come opportunità e ricchezza, ma di fatto come un pericolo, una noia, un ostacolo.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di una scuola che sia l’incontro fra culture diverse e l’occasione di conoscere di più e conoscersi di più, mettendosi alla prova anche rispetto alla propria cultura e convinzioni. Oggi più che mai abbiamo anche bisogno della dimensione religiosa: chi la pratica e crede porta avanti una domanda di senso, a suo modo come altri in altro modo, che è da sempre motore di sviluppo dell’umanità. Laicità deve significare che ognuno sia libero di credere e di esprimersi come ritiene, che ognuno possa essere ciò che è, fino in fondo. Uno stato laico non dovrebbe avere la preoccupazione di controllare le espressioni delle varie culture e della religiosità, ma se mai di garantire che tutti possano esprimerla. Non sponsorizzare un appiattimento ma esaltare tutte le espressioni come può, espressioni che in qualche modo caratterizzano chi nel territorio vive. Che lo Stato sveli un certo timore nei confronti di queste espressioni in nome della laicità, va contro non solo a una cultura del popolo, cioè all’idea che lo Stato è un popolo, che lo Stato è il popolo con tutte le sue sfaccettature, cioè che lo Stato altro non è che il nostro metterci insieme per convivere e condividere, ma è anche un pericolosissimo facilitatore di quel disagio sociale che si immagazzina intorno al diverso fino ad esplodere: più viene richiesto di rinunciare a sé in pubblica piazza, più le diversità si allontanano, non si comprendono, e si alimenta il sospetto. Si finisce così per creare sacche di disagio, diversità che non si sono mai impastate davvero con il tessuto sociale e che quindi prima o poi dovranno esplodere, come già accaduto in Francia negli anni passati.

Il rischio è quello di dar vita ad un terzo populismo in salsa laicista: la misura in sé ricorda spaventosamente quel populismo di destra che ha paura del diffondersi della religione musulmana nel vecchio continente per non essere contaminati, ma applicata alla religione in generale, mentre la motivazione, lontano da tradizionali posizioni a riguardo di un centrodestra che si è sempre trovato a difendere l’espressione religiosa, sembra strizzare l’occhio a quel populismo di sinistra che vede nel laicismo sfrenato un nuovo mantra secondo cui la religione è roba da retrogradi, affari personali da praticare negli scantinati, nonostante la misura sia quanto di più lontano abbia mostrato una certa sinistra in questi anni sulla difesa della libertà e l’integrazione dei musulmani. Di fatto, misura e motivazione vengono portate avanti da un campo che si professa liberale e riformista, ma che dimentica che la libertà di essere integralmente sé stessi include la libertà religiosa e quindi di pensiero, e che riformare senza far danni si può fare partendo dal popolo che c’è, non da un’ideologia imposta dallo Stato.

Il concetto di sana laicità di Papa Ratzinger comincia con il riconoscimento di un fattore che c’è e che non è un semplice sentimento individuale ma una presenza comunitaria pubblica. Riconoscere le presenze e le diversità nella società e valorizzarle, non annullarle ed appiattirle. E – oltre ad essere la realtà dei fatti – è bello che queste diversità “frequentino” la società, rendendola vivace, scuola compresa. Altrimenti “Liberté, Égalité, Fraternité” è uno slogan che suona bene, ma completamente vuoto di significato e di vita e che anzi mirerà a rendere tutti uguali, tutti nessuno. Una scuola che ha la preoccupazione di annullare i ragazzi, anche in uno solo degli aspetti della loro vita, non può che spaventarci enormemente.