Francesco Giubilei da Gerusalemme ha visto con i suoi occhi l’alba dell’operazione israeliana a Gaza City. Le avvisaglie c’erano già tutte: mezzi militari ammassati al confine, accessi dei giornalisti sospesi, voci insistenti tra i funzionari. Poi, a mezzanotte, le sirene e la corsa nei rifugi. Il presidente di Nazione Futura, che collabora con ilGiornale, ci porta dentro l’atmosfera di un Paese che convive con la guerra, diviso tra grande sostegno all’offensiva e piccole proteste, ma sempre più unito e concentrato sull’obiettivo esistenziale: debellare Hamas.
L’operazione a Gaza City è iniziata. Quando avete capito che si stava entrando nel vivo?
«Già dalle ore precedenti l’attacco di Israele a Gaza City c’era il sentore per una serie di motivazioni. Israele stava ammassando al confine i propri mezzi militari. Inoltre avevano sospeso le visite dei giornalisti nella Gaza Humanitarian Foundation e nei luoghi in cui vengono distribuiti gli aiuti. E avevamo incontrato funzionari di alto livello, che avevano paventato l’ipotesi nella notte. Infatti verso mezzanotte, ora di Israele, è avvenuta l’operazione. Quindi i segnali c’erano già tutti».
Come è stato percepito l’attacco missilistico degli Houthi proveniente dallo Yemen (intercettato dall’Idf)?
«In quel momento stavo parlando con alcune persone ed è scattato l’allarme: c’è stato un fuggi fuggi generale per andare nei rifugi più vicini, fino a quando le sirene non hanno finito di suonare. È una dinamica che continua ad esserci, ma decisamente con minore frequenza. Adesso Hamas non è più in grado di inviare missili contro Israele, mentre gli Houthi hanno ancora questa capacità. Lo Stato ebraico sta continuando ad attaccarli proprio per neutralizzarli».
Che aria si respira a Gerusalemme?
«Ero stato a Gerusalemme nei giorni successivi al 7 ottobre 2023, ho visitato anche i kibbutz. C’era un clima mai visto in Israele. Ora la popolazione si è più abituata. Ogni famiglia è più o meno direttamente interessata dalla guerra: quasi tutte hanno parenti o conoscenti che sono stati uccisi o feriti. Questo ha una forte influenza sulla società».
La sensazione è che gli israeliani tutti, anche gli anti-Netanyahu, alla fine si compattino nella guerra per difendere la propria esistenza…
«È una sensazione corretta. C’è una minoranza della popolazione che è contraria alla guerra, mentre una consistente fetta – sicuramente stanca per il conflitto – ritiene che sia necessario sconfiggere totalmente Hamas. E quindi accetta l’operazione a Gaza City, concepita e percepita come la parte finale della guerra. Fonti di alto livello ci hanno detto che entro fine anno, o al massimo entro febbraio 2026, il conflitto dovrebbe finire. Anche perché a febbraio del prossimo anno è previsto il voto per il Bilancio».
Però le famiglie degli ostaggi sono ancora in pressing su Bibi…
«Sì, continuano le proteste dei familiari degli ostaggi e di una parte della società israeliana. Ci sono ancora cortei, manifestazioni, proteste sotto casa di Netanyahu. Questo è un tema indubbio, innegabile».
Israele rischia sempre più l’isolamento: è davvero pronta a essere Atene e Super-Sparta?
«Loro sono consapevoli del rischio di isolamento internazionale, ma al tempo stesso dicono: per noi, la sconfitta di Hamas e la vittoria della guerra sono più importanti di ogni altra cosa. Sono disposti anche ad avere contro una parte consistente del mondo occidentale. In fin dei conti, ciò che a loro interessa è il supporto degli Stati Uniti. Il fatto che l’attacco sia avvenuto in concomitanza con la presenza di Marco Rubio è un segnale politico enorme: significa che ha avuto la luce verde dal Segretario di Stato Usa e che l’Amministrazione Trump sostiene l’offensiva a Gaza City. Questo per loro vale più di qualsiasi risoluzione dell’Onu e di qualsiasi dichiarazione dei governi europei. Il ruolo di Trump è molto importante. Dire che l’attacco in Qatar è avvenuto senza il consenso degli americani è totalmente infondato: questo scenario viene ipotizzato in Italia in chiave anti-Trump, ma non corrisponde a verità».
