Sharm el-Sheikh, Egitto. Qui si può fare la storia del Medio Oriente, ponendo fine alla guerra infinita tra Israele e le fazioni palestinesi che si riconoscono nella leadership di Hamas. Nella nota mèta turistica sono giunte ieri le delegazioni di Israele e del Movimento della Resistenza Islamica («Hamas» significa proprio questo) per chiudere l’accordo sul piano di pace di Donald Trump, insieme con i mediatori di Stati Uniti, Qatar ed Egitto.
Presente ai negoziati, iniziati in prima serata, diplomatici, militari ed esperti mediatori: per Gerusalemme ci sono Ron Dermer, ministro per gli Affari strategici; Ophir Falk, consigliere di Netanyahu per la politica estera; Gal Hirsch, coordinatore del governo per gli ostaggi; Nitzan Alon, responsabile delle forze armate per gli ostaggi; oltre a due funzionari dell’intelligence estera e del controspionaggio, gli agenti «M» per il Mossad e l’agente «D» dello Shin Bet (i cui nomi sono e resteranno secretati). Hamas ha inviato per certo a Sharm Khalil Al Hayya, che guida la delegazione palestinese in qualità di alto dirigente del gruppo; mentre non è confermata la partecipazione di Bassem Naim, Mousa Abu Marzouk e Ghazi Hamad, tutti appartenenti alla sedicente «leadership di Hamas all’estero» (è noto il fatto che il gruppo dirigente presente nella Striscia sia stato decimato, se non del tutto decapitato, in questi due anni e mezzo di guerra).
Quanto agli Stati Uniti, veri artefici della road map che dovrebbe portare alla fine del conflitto e allo scambio dei prigionieri – gli ultimi 48 ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas non si sa se siano vivi e morti (sic) -, la Casa Bianca ha dato mandato di trattare le volontà di Washington a Steve Witkoff, inviato ufficiale dell’Amministrazione Trump per le crisi internazionali nonché uomo di stretta fiducia del presidente; accanto a lui, figura il non meno centrale Jared Kushner, genero di Donald Trump (ha sposato sua figlia Ivanka) e consigliere per il Medio Oriente sin dal primo mandato del tycoon. In rappresentanza dei Paesi Arabi, invece, sono stati confermati soltanto: il premier e ministro degli Esteri Mohammed Al Thani, ovvero la più alta carica del Qatar (a testimonianza di quanto seriamente Doha prenda questo tavolo negoziale e del futuro ruolo dei qatarini nella regione); e Hassan Mahmoud Rashad, capo dei servizi segreti egiziani, anche se quest’ultimo potrebbe non volersi esporre direttamente e inviare invece un suo fedelissimo (ma la sostanza non cambia).
Non è presente alcuna delegazione della Turchia, che tuttavia – come scrive il Jerusalem Post – mantiene contatti diretti con due gruppi dei miliziani di Hamas che stanno tenendo in ostaggio parte dei cittadini israeliani nella Striscia di Gaza, e con i quali finora non erano in corso comunicazioni. Dunque, quelli che sono stati definiti inevitabilmente «colloqui indiretti» possono contare comunque su un filo più che diretto con i diretti responsabili del futuro dell’area. Non sfuggirà al lettore il fatto che la data in cui prendono il via i negoziati egiziani sul piano di pace elaborato dal presidente Trump, coincide con il secondo anniversario del massacro del 7 ottobre 2023, perpetrato dai jihadisti palestinesi a danno soprattutto dei civili israeliani e da cui ha preso corpo l’offensiva dell’Idf su Gaza. L’ennesima, per la verità, ma probabilmente – ed è quello che spera ardentemente Donald Trump – anche l’ultima, considerato che Gaza City è già in mano alle forze armate israeliane, e che Hamas e le altre milizie palestinesi sono state sconfitte e la loro dirigenza falcidiata, mentre la popolazione civile locale ha patito e patisce tuttora gli orrori della guerra.
Intanto, in attesa delle prime indiscrezioni, l’Idf continua a combattere sia nella Striscia sia nell’est del Libano, a riprova del fatto che un tavolo di pace – l’Ucraina insegna – non significa affatto credere alla controparte né tantomeno l’avvio delle trattative offre certezze circa una fine imminente delle ostilità. Il cammino è ancora lungo e irto di ostacoli: a cominciare dal fatto che Hamas si dovrà spogliare di ogni armamento (il che sancirebbe la sua stessa fine), e dovrà liberare tutti gli ostaggi israeliani (nonostante affermi di non sapere che fine abbiano fatto alcuni). Lo scambio è dunque il primo cruciale test per il prosieguo delle trattative. Ma non l’unico: affinché il Piano Trump abbia successo, bisognerà chiarire le modalità per il passaggio di consegne a una terza parte (leggi Tony Blair), stabilire cosa ne sarà dei palestinesi nella Striscia. Ma anche quale governo avrà la West Bank, che rappresenta il punto più vulnerabile dell’intero progetto, e dove il conflitto potrebbe riesplodere.
